Il podcast di Stefano Todeschi
Per imprenditori, manager e professionisti che vogliono comunicare con sicurezza e autorevolezza. Nuova puntata: ogni giovedì mattina.
Cerca qui quello che vorresti approfondire sui temi del parlare in pubblico e delle interazioni umane:
34. Comunicazione professionale: domande & risposte.
Domande e risposte su: come ritrovare il filo del discorso quando l'ansia prende il sopravvento, il significato della "buona ragione" anche in chi ha torto, come non sembrare noioso parlando dopo un collega brillante e come rendere le riunioni efficaci dando una direzione chiara fin da subito. Infine, rispondo anche a come sollecitare un parere quando in riunione c'è silenzio assoluto.
In questa puntata di domande e risposte affronto parlo di:
come ritrovare il filo del discorso quando l'ansia prende il sopravvento,
il significato della "buona ragione" anche in chi ha torto,
come non sembrare noioso parlando dopo un collega brillante e
come rendere le riunioni efficaci dando una direzione chiara fin da subito
infine rispondo anche a come sollecitare un parere quando in riunione c'è silenzio assoluto.
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Ecco una sintesi delle domande e risposte.
1. Perdere il filo del discorso in ansia
Quando perdi il filo, considera che questo è spesso indice di creatività. I momenti di blocco arrivano o per un affastellamento di troppi concetti o per uno spin-off mentale, una digressione improvvisa. La soluzione: prenditi tempo. Esempio: se hai le slide, riguardale in silenzio. Individua una parola chiave della slide e usala per riprendere il tuo ragionamento. Questa analisi ti serve anche per il futuro: capisci se devi semplificare la presentazione o includere lo spin-off la volta successiva, se lo hai ritenuto necessario per quel pubblico specifico.
2. Cercare la "buona ragione" anche in chi ha torto
Quando dico che bisogna cercare la "buona ragione" anche in chi ha torto clamoroso (ad esempio, urla in riunione), intendo che ogni azione è mossa da una ragione sufficientemente potente. Non significa che approvo il comportamento esecrabile, né che si debba fare lo psicoterapeuta. Si tratta di capire la dinamica che ha portato a quell'azione, perché se ignori questa ragione, la persona rischia di ripetere in futuro quel comportamento indesiderabile che genera conflitto nel team. Capire la ragione serve per collaborare nel migliore dei modi possibili.
3. Come non sembrare noioso dopo un "animale da palcoscenico"?
Se parli dopo un collega brillante e tu sei più sobrio e tecnico, puoi agire su due fronti:
collaborazione: lavora con il collega prima dell'appuntamento. Questo serve a creare affinità di intenzioni, non di stile. Il collega può introdurre la tua parte in modo sinergico. Chi ascolta deve sentire che state collaborando (deve essere vero).
obiettivo personale: focalizzati sul risultato che vuoi ottenere sulle persone. Non devi solo dire i contenuti perché vanno detti. Chiediti quali scoperte o rivelazioni le persone devono avere dalle tue informazioni. Se tocchi le loro problematiche e i loro dubbi, dimostrando come i tuoi contenuti migliorano il loro quotidiano professionale, non sarai noioso, anche se presenti dati tecnici.
4. Riunioni lunghe senza decisioni
Se le tue riunioni finiscono lunghe e inconcludenti perché "ognuno dice la sua," è perché manca una direzione chiara. La riunione comincia prima che sia convocata. La direzione va data in fase di convocazione via email, con un oggetto chiaro e un Ordine del Giorno (ODG) super chiaro e con un numero ragionevole di punti.
5. Silenzio assoluto quando si chiede un parere
Se in riunione chiedi un parere e ottieni "scena muta," è probabile che tu stia usando formule troppo generiche, come Ci sono domande? o Che cosa ne pensate? Queste formule creano troppi passaggi mentali per gli ascoltatori. Il mio consiglio: cerca di essere più verticale e specifico. Invece di chiedere se un dato sia piaciuto, chiedi Qual è il numero che vi ha colpito di più? Questo porta le persone a ragionare diretti e immediati sull'informazione e sull'opinione.
A proposito di chiedere, se vuoi fare le tue domande, scrivile da qui.
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Chi è Stefano Todeschi
Sono consulente e formatore specializzato in public speaking pratico. Lavoro con imprenditori, manager e professionisti appassionati che vogliono saper coinvolgere clienti e collaboratori durante presentazioni, incontri e meeting aziendali.
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33. Interazioni e comunicazione professionali: domande & risposte.
In questa puntata rispondo ai dubbi su espressività vocale, gestione dello sguardo e storytelling, spiegando anche come affrontare le reazioni difensive e la velocità dell'eloquio.
In questa puntata rispondo ai dubbi su espressività vocale, gestione dello sguardo e storytelling, spiegando anche come affrontare le reazioni difensive e la velocità dell'eloquio.
Ecco i temi di oggi:
Come rendere la voce più espressiva se si hai l'impressione che sia monocorde?
Dove guardare quando parli a un gruppo di persone?
Iniziare un discorso con una storia personale corre il rischio di annoiare?
Come sbloccare la situazione quando un collaboratore si mette sulla difensiva?
Cosa fare quando si parla molto veloce e si è agitati di natura?
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Ecco una sintesi delle domande e risposte.
1. Come rendere la voce più espressiva se è monocorde (monotona)
Primo: non recitare o fare l'attore, perché tu porti te stesso.
Secondo: il lavoro sull'espressività non si fa sul momento, ma prima. Ti consiglio dunque di fare esercizi per scoprire e conoscere le tue possibilità espressive preparandoti per tempo. Ad esempio, prova a parlare con estrema lentezza, volume piano e tono grave, o usa l'espressività scandita, affettando le parole in modo netto e pulito. Durante l'esercitazione esagera, ma poi, quando parli alle persone, ignora totalmente gli esercizi fatti e concentrati solo sulle cose che stai dicendo. Il punto è abituare il tuo strumento, cioè la tua espressività, a suonare più corde, in modo che in partita tu non ci debba più pensare.
Qui trovi 5 esercizi per parlare in pubblico con più efficacia
2. Dove guardare quando si parla a un gruppo di persone
Se parli a un gruppo (circa 5-20 persone), è importante guardare tutte le persone. L'errore da evitare è pennellare gli sguardi, trattando il gruppo come una parete uniforme. Devi fermarti e far sentire lo sguardo ad ognuno.
Puoi portare un concetto a una persona, poi un altro concetto a un'altra persona, oppure, parlando dello stesso concetto, saltellare con una frequenza maggiore tra due o tre persone. Non fissare solo la persona più accondiscendente o rassicurante: cerca piuttosto anche quelle con cui senti meno affinità, coinvolgendole.
3. Iniziare un discorso con una storia personale
Ha senso se la storia ha a che fare con il tema che stai sviluppando e può far capire un passaggio cruciale.
Non usiamo storie per riempire buchi, ma per coinvolgere gli ascoltatori. Rischiamo di annoiare solo se eccediamo in premesse, che le persone di solito detestano. Vai dritto al punto: inizia subito la storia partendo da un quando (esempio, l'altro giorno…), un dove (in via 20 settembre…), o un personaggio (Gino, il mio collaboratore…).
4. Gestire la difensiva: la risposta "Lo sai benissimo"
Quando un dipendente risponde in modo difensivo, chiediti subito se le cose stanno come dice lui/lei.
Se non eri presente: è opportuno rimarcare che non c'eri e che hai ricevuto solo delle informazioni che non hai capito granché. Chiedi sempre "che cosa è successo" focalizzandoti sui fatti e sulle azioni. Evita di chiedere subito il perché delle cose, in quanto si tratta di domanda spesso troppo impegnativa.
Se eri presente e sai: puoi fare una sintesi dei fatti quanto più neutra possibile (senza usare giudizi come "giustamente" o "purtroppo"). Dopo aver dato questa sinossi, puoi chiedere, ad esempio: "Dal tuo punto di vista ho perso qualche passaggio?"
Ascolta e leggi anche > Obiezioni: vantaggi e benefici. Come gestirle bene.
5. Devo forzarmi a rallentare se parlo veloce e sono agitato?
Il punto non è la velocità o la lentezza, ma aiutare le persone a capire ciò che stai portando.
Puoi parlare veloce se dai il tempo cognitivo sufficiente affinché loro capiscano i concetti. Questo significa "paragrafare" il tuo modo di parlare, creando degli spazi vuoti (pause) tra un concetto e l'altro, proprio come faresti in un testo scritto. Siccome, infatti, nei testi scritti il muro di parole senza paragrafi genera affaticamento nella lettura, anche chi ascolta ha bisogno di questi "a capo" per elaborare le informazioni.
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32. Obiezioni: vantaggi e benefici. Come gestirle bene.
Come gestire al meglio obiezioni, dubbi e criticità per trasformarle in strumenti utili a ottenere benefici. Lo scopo: generare la migliore collaborazione con chi stai lavorando, raggiungendo risultati precisi.
Come gestire al meglio obiezioni, dubbi e criticità per trasformarle in strumenti utili a ottenere benefici. Lo scopo: generare la migliore collaborazione con chi stai lavorando, raggiungendo risultati precisi.
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Un ruolo di responsabilità porta con sé la consapevolezza che gli imprevisti si presentano. Così, da parte di clienti, collaboratori e colleghi possono arrivarti dubbi, domande impreviste, criticità e obiezioni ogni giorno.
L'obiettivo è imparare a gestire queste obiezioni per trasformarle in strumenti per ottenere benefici e vantaggi.
Cominciamo dalla fiducia.
Per poter collaborare, è fondamentale che ci sia fiducia reciproca. Ma chiedere a qualcuno di fidarsi è il modo peggiore per ottenerla, perché è facile che si sollevi un muro di diffidenza. La fiducia si costruisce attraverso il dialogo, non con la richiesta da elemosina.
Il dialogo è essenzialmente ascolto reciproco. L'essenza del dialogo non è dire cose, ma ascoltare l'altra persona.
I due passaggi chiave per la gestione delle obiezioni.
Per gestire le obiezioni e trasformarle in vantaggi, sono fondamentali due passaggi:
allineamento: l'obiettivo è arrivare ad essere sulla stessa pagina, leggendo e condividendo le stesse parole;
attivazione della collaborazione: questo significa rendere la collaborazione reale, effettiva e concreta.
L'origine dell’obiezione.
Ciò che l'obiezione, il dubbio o una criticità espressa nascondono in definitiva è un vuoto.
La persona che fa un'osservazione o un'obiezione percepisce la mancanza di qualcosa: un dato, un'informazione, un dettaglio, un passaggio logico per capire davvero la tua proposta.
Chi ti porta un'osservazione, anche contestataria, sta compiendo un atto di coraggio e di collaborazione, sta dicendo: ci sono anch'io. Anche quando senti l'intento polemico, lì c'è un vuoto che non è stato colmato.
Questo vuoto può essere:
tuo: non ti sei spiegato abbastanza o mancano pezzi nella tua presentazione;
dell'ascoltatore: gli mancano i prerequisiti necessari per capire ciò che dici.
Ma il vuoto può riguardare anche la persona stessa, che non ha capito le proprie dinamiche professionali. Questo caso è frequente fra i clienti, e ha anche senso: è la ragione per cui i clienti ti cercano per un prodotto o un servizio. Ciò che tu sai fare o vendi serve loro per colmare un vuoto che da soli e non potrebbero colmare.
Fase 1: allineamento e comprensione.
L'allineamento richiede di capire quale vuoto c'è stato in ciò che hai portato o quale vuoto ha l'altra persona.
Qui è necessario capire quali informazioni ti mancano per allinearvi e parlare la stessa lingua. Il mandato consiste, innanzitutto, in capirci reciprocamente.
Su questo ti suggerisco di approfondire con la puntata del podcast > Capire i collaboratori. Dagli errori alla collaborazione.
Fase 2: attivazione della collaborazione e dei ruoli.
Per attivare la collaborazione, è prima necessario attivare il tuo ruolo professionale. Il ruolo, in particolare, di una persona che, professionalmente aiuta. Ha senso il tuo aiuto, poiché, se qualcuno ha un vuoto, significa che è deficitario di qualcosa.
Se una persona fa una domanda, anche con tono polemico, è perché vuole conoscere di più. Non ti serve difenderti o arroccarti, perché questo creerebbe un ostacolo all'allineamento.
Il punto chiave è attivare il consulente che è in lui o in lei. Ciò significa che questa persona può diventare il tuo consulente gratuito, dandoti le informazioni necessarie per capire il vuoto e le ragioni della sua domanda. In pratica farai in modo che siano loro a facilitarti il lavoro, aiutandoli… ad aiutarti.
Puoi approfondire in quest'altra puntata del podcast > Trasformare clienti e collaboratori in nostri consulenti
Vantaggi e benefici concreti.
In definitiva, il lavoro di gestione delle obiezioni consiste quindi nell'allineamento e nell'attivazione reciproca dei ruoli.
L'allineamento e la collaborazione portano benefici e vantaggi.
Vantaggi immediati: capisci i tuoi interlocutori, come vedono le cose, e scopri le possibili criticità del progetto che non avevi considerato. Loro, a loro volta, capiscono meglio ciò che stai portando e comprendono di più di sé stessi e delle proprie difficoltà.
Benefici estesi: migliore collaborazione, conoscenza reciproca e comprensione all'interno del team (inclusa la relazione con i clienti).
Vantaggio personale a lungo termine: ogni volta che ricevi un'osservazione critica o un'obiezione, stai costruendo il tuo repertorio. Si tratta di un archivio vivo di criticità, soluzioni, risposte opportune e ragionamenti che cresce nel tempo e accresce a sua volta la tua esperienza professionale.
Ora, se vuoi un aiuto concreto e professionale per lavorare bene sui vuoti di collaboratori, clienti e tuoi, puoi lavorare con me: ecco cosa possiamo fare > scopri tutto da qui
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31. Gestire le emozioni del team professionale.
Quando le conversazioni si fanno tese e le emozioni innescano conflitti professionali, il rischio è che venga meno l'alleanza e la collaborazione nel team. Vediamo come costruire relazioni professionali solide e raggiungere i nostri obiettivi condivisi, nonostante le emozioni critiche.
Quando le conversazioni si fanno tese e le emozioni innescano conflitti professionali, il rischio è che venga meno l'alleanza e la collaborazione nel team. Dobbiamo abbandonare il tabù di lasciare fuori le emozioni dal lavoro e imparare a gestirle in modo consapevole e lucido. lo scopo: costruire relazioni professionali solide e raggiungere i nostri obiettivi condivisi.
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Quando una conversazione si fa tesa o la temperatura nell'ambiente si alza, il rischio è chiudersi o contrattaccare, compromettendo l'alleanza e la collaborazione necessarie per raggiungere gli obiettivi condivisi. Come fare?
Il nostro obiettivo è gestire le emozioni del team e le nostre con consapevolezza e lucidità, per costruire relazioni professionali solide e comunicare con sicurezza e autorevolezza. Le emozioni sono parte integrante del nostro essere, non possiamo eliminarle o impedirle. Tuttavia, sono anche adattive: la rabbia, per esempio, indica la necessità di risolvere una situazione. È la spia accesa sul cruscotto delle interazioni professionali.
Ti propongo tre passaggi fondamentali per lavorare sulle emozioni e rafforzare l'alleanza in funzione del nostro obiettivo condiviso. Ti faccio una sintesi qui, e ti consiglio di ascoltare la puntata del podcast qui sopra. ⬆︎
Riconosci e gestisci la tua emozione (auto-empatia): prima di tutto, guarda bene come stai tu. La prima persona che merita attenzione da te, sei te stesso. Questo ti mette in sicurezza rispetto alle interazioni che seguiranno.
Fare auto-empatia significa dare un nome preciso a ciò che provi (irritazione, rabbia, frustrazione). Questo atto di consapevolezza attiva la parte razionale del cervello, permettendoti di auto-osservarti. Non devi controllare l'emozione, ma osservarla.
Dare un nome alla tua emozione (auto-empatia, concetto mutuato da Marshall Rosenberg) ti permette di ragionarci sopra con lucidità. È cruciale compiere questo passaggio per primo, per non condizionare lo sguardo sull'emozione altrui.Riconosci l'emozione altrui (etero-empatia: l’empatia sull’altra persona): dopo aver riconosciuto la tua emozione, osserva quella dell'altra persona, mantenendo sempre chiaro l'obiettivo condiviso. Non si tratta di fare i buoni, ma di condurre un'analisi rigorosa.
Evita di esprimere giudizi o di ordinare all'altro di calmarsi o ragionare, perché questo è un modo per manifestare il tuo giudizio interiore e rischia di far arrabbiare l'altro ancora di più. Riconosci l'emozione dell'altro come un dato di fatto, anche se non ne hai certezza (non puoi vedere che cosa accade davvero nella sua mente).
Ora puoi dare una definizione all'emozione, per esempio dicendo: "Mi sembra di capire che questa situazione possa crearti frustrazione". Evitati aggiungere "ma" o "però", che contengono un giudizio. Nominare l'emozione crea un aggancio che aiuta l'altra persona a vedersi da fuori e a prendere consapevolezza di ciò che sta vivendo.Eleva la prospettiva: è il momento di guardare da una distanza sufficiente ciò che è accaduto. Significa assumere una visione dall'altro. Questo ti permette di mappare la situazione in modo sistemico e di guadagnare lucidità per comprendere le connessioni delle dinamiche innescate. Questo lavoro sulle emozioni è strategico per poter recuperare la dinamica di comprensione e la ricerca dei fatti concreti.
Ora se vuoi un aiuto concreto e professionale per smontare i meccanismi tossici con collaboratori e colleghi, poi lavorare con me, qui ti spiego cosa possiamo fare > scopri tutto da qui
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30. Capire i collaboratori. Dagli errori alla collaborazione.
Di fronte a un errore del collega o del collaboratore, la nostra urgenza di avere ragione e fare lo spiegone ci trasforma in giudici. Parte una faticosa battaglia di posizioni. Vediamo come trovare soluzioni più solide, risparmiare tempo e costruire una vera collaborazione anche di fronte agli errori.
Di fronte a un errore del collega, la nostra urgenza di avere ragione e fare lo spiegone ci trasforma in giudici. Parte una faticosa battaglia di posizioni. Vediamo come trovare invece soluzioni più solide, risparmiare tempo e costruire una vera collaborazione anche di fronte agli errori.
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Un tuo collaboratore non rispetta una scadenza, un collega interpreta male una direttiva o un cliente compie un'azione che non ti piace.
La reazione istintiva è correggere, e dimostrare a spada tratta perché quella cosa è sbagliata. In questo processo, il rischio è di finire per stabilire chi ha ragione e chi ha torto, ma perdendo di vista il vero focus della collaborazione: il progetto e gli obiettivi condivisi.
Questa urgenza di avere ragione ci porta a vedere solo l'errore in superficie e ci costringe a combattere una battaglia di posizioni. Una fatica enorme, invece di lavorare insieme per risolvere il problema alla radice. Ammetto che è difficile resistere alla tentazione di dimostrare che l'altro aveva torto e io avevo ragione. Però non c'è altra via, se vogliamo continuare a lavorare alleati sui progetti che condividiamo.
Qui puoi fare come l'artigiano curioso.
L'artigiano, di fronte a un meccanismo bloccato, lo smonta con cura, pezzo per pezzo, per capire qual è l'ingranaggio che blocca la fluidità del lavoro.
Il punto è che, sebbene un collaboratore possa oggettivamente avere torto (ad esempio, ha mancato una scadenza o ha usato un approccio diverso da quello concordato), dietro quel torto c'è sempre una buona ragione. Ma cosa significa?
Una buona ragione non è necessariamente giusta, ma è un motivo sufficiente che ha spinto quella persona ad assumere quel comportamento. Può trattarsi di una paura, un'esperienza passata, una pressione esterna o un bisogno non soddisfatto. L'azione è l'errore (il torto), mentre la buona ragione è il motivo che muove l'azione, giusta o sbagliata che sia.
Finché sei impegnato a dimostrare il torto, ti sarà difficile riuscire a vedere la buona ragione e non potrai raggiungere l'obiettivo condiviso. Qualsiasi tuo tentativo di correzione, infatti, rischia di essere percepito come un chiaro attacco al tuo interlocutore.
In questo caso, l'urgenza è capire davvero. Per capire, bisogna imparare a smontare la situazione.
La via più semplice e fruttuosa è farlo insieme al tuo stesso interlocutore.
Come smontare insieme il problema. E tornare a lavorare insieme sull’obiettivo.
Separa i fatti dalle interpretazioni: comincia con lo smontaggio della tua reazione emotiva. E quindi del tuo bisogno di avere ragione. Riconosci che la mente produce immediatamente un giudizio, che è un'opinione o un'interpretazione. Qui la tua razionalità è in balia della tua emotività. Ma nessun professionista può permettersi di reagire di pancia nelle situazioni professionali.
Un tipico esempio che vedo con i clienti che seguo nella formazione individuale è il giudizio sui commerciali: “pensano solo a vendere quando promettono consegne rapide”.
Questo tipo di giudizio non aiuta a trovare la soluzione. Perché chi si esprime così continua a relazionarsi con i commerciali con il condizionamento emotivo. Allora è necessario mettere da parte il bisogno di avere ragione e concentrarsi sui dati di fatto oggettivi e osservabili.
Questo ti permette di mantenere la lucidità e non reagire "di pancia".
Indagare sulla buona ragione adottando la postura dell'ignaro: una volta isolato il fatto (ad esempio, la discrepanza tra la data di consegna promessa e il ciclo di produzione), è il momento di usare le domande per capire più in profondità.
Mettiti dalla stessa parte del tuo collaboratore, come un alleato. Ad esempio, puoi chiedere: "Mi aiuti a capire, c'è una pressione particolare da parte del cliente per avere quella data?" Ma attento al tono della tua voce: devi saperti esprimere in modo neutro, perché devi davvero sapere come stanno le cose, e non giudicare.
Indagare costringe l'altra persona a verbalizzare il suo ragionamento, facendo emergere la buona ragione, che può essere una pressione esterna o magari la pressione che si è auto-dato (come voler fare bella figura). Stai spostando la responsabilità sull'interlocutore per renderlo consapevole, senza esprimere giudizi.Riconoscere la buona ragione senza giustificare il torto: quando la buona ragione è emersa, riconoscila esplicitamente. L'obiettivo è far capire al tuo interlocutore che hai compreso la sua prospettiva e la sua preoccupazione.
Questo riconoscimento ti permette di creare un ponte diretto con questa persona, trasformandolo da avversario ad alleato.
Adottando questo approccio, ottieni due effetti:
Eviti la ruminazione mentale: non sprechi più energie nel rimuginare sui problemi una volta compreso il motivo del comportamento.
Trovate insieme soluzioni più solide: l'indagine sulla buona ragione fa emergere il vero problema. Entrambi vedete bene il problema da più punti di vista. Le soluzioni che ora potrete lavorare insieme saranno più solide perché formalizzi un approccio utile per il futuro.
Questo cambiamento sposta la conversazione da uno scontro a una collaborazione e un'alleanza vera e propria, con un enorme risparmio di tempo nelle dinamiche future.
Mi rendo conto che all'inizio questo lavoro può sembrare impegnativo. Quando lo propongo nelle formazioni individuali sulle gestione delle relazioni interne, il timore è il consumo di tempo. Ma quando i manager, gli imprenditori e i responsabili applicano questa tecnica in azienda si accorgono che i loro collaboratori iniziano a capire meglio le dinamiche personali inserite nelle dinamiche aziendali.
Il bello è che così si moltiplica la collaborazione e si evita che si ripresentino gli stessi problemi. La consapevolezza è ciò che fa la differenza. Quando poi è condivisa, a più livelli, il senso di alleanza interna all'azienda si moltiplica.
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29. Come aiutare il team a trovare soluzioni ai problemi (risparmiando fatica).
Sei stanco di rivestire il ruolo di chi ha sempre la risposta pronta, il che ti porta a diventare il bancomat delle soluzioni? Vediamo come rompere la dipendenza dalle tue soluzioni e alleggerire il tuo lavoro.
Nella tua azienda sei il bancomat delle soluzioni? Colleghi e collaboratori chiedono a te la soluzione dei loro problemi, ma questo ti affatica e crea dipendenza per loro. Vediamo come migliorare la collaborazione in azienda e alleggerire te durante il lavoro. Invece di fornire subito la risposta, il primo passo è adottare la "difficoltazione strategica”.
Ascolta la puntata qui sopra ⬆︎
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Quando i collaboratori espongono un problema, spesso potresti avere la sensazione che stiano vomitando anche frustrazioni e pesantezze personali. Dare subito la soluzione ci sembra la risposta che consuma meno tempo. Ma in realtà è il modo migliore per rinforzare la loro passività, comunicando implicitamente che non serve che ci pensino loro. Con tutta probabilità, torneranno più e più volte per ogni minimo problema. Finirai per consumare più tempo di quanto avresti voluto.
Mettiamo allora in discussione il comportamento tipico di dare sempre la soluzione.
L'obiettivo che ti propongo è stimolare il tuo team, i tuoi collaboratori (anche i tuoi clienti) a trovare in autonomia le risposte, e al contempo farti risparmiare fatica, dividendola. Puoi trasformare i tuoi collaboratori nei tuoi migliori consulenti.
Qui ho parlato di come trasformare collaboratori e i clienti in perfetti consulenti > ascolta e leggi
Poiché sono loro, le persone con cui collabori, che vivono il problema ogni giorno e conoscono i dettagli in trincea, ha senso che siano loro, proprio loro, a scovare la soluzione ai problemi che vi vivono. Tu puoi aiutarli a farlo.
Per raggiungere questo scopo, puoi adottare la "difficoltazione strategica". Invece di spianare la strada, crea una difficoltà costruttiva, costringendo la persona a riflettere e uscire dalla passività, richiedendo il suo impegno. Questo ti farà risparmiare fatica mentale nel medio e lungo periodo.
Il metodo della difficoltazione strategica si articola in tre passi essenziali:
Ascolto attivo e sintesi: ascolta fino all'ultima parola, senza interrompere, a meno che tu non riconosca un loop, ovvero una ripetizione continua dello stesso concetto, spesso legata a frustrazioni emotive. Dopo l'ascolto, fai una sintesi per allinearti sui fatti. Ad esempio: "La situazione è X, il problema è Y e questo provoca Z. È corretto?" L'obiettivo è comprendere se siete sulla stessa pagina e piantare il primo chiodo, smontando subito la situazione.
Postura dell'ignaro: è necessario assumere un atteggiamento da ignaro, come suggerito dallo psicologo sociale Edgar Schein, perché tu non eri presente e non puoi sapere tutto. Non dare nulla per scontato. Poni domande aperte, semplici, da giornalista: chi, che cosa, quando, dove. Ti consiglio di non chiedere il "perché" troppo presto, nel podcast ti spiego per quale ragione, ascoltalo, è qui sopra.
Restituire la responsabilità: questo è il momento in cui ottieni il maggior risparmio energetico, delegando lo sforzo maggiore, cioè il pensiero della soluzione. Invece di chiedere: "Tu cosa proporresti per risolvere?" (domanda che espone troppo l'interlocutore), puoi spostare il soggetto sulla soluzione. Ho fatto gli esempi nel podcast, meglio ascoltare ;)
Questo approccio richiede un cambio di mentalità da bancomat risolutore a difficoltatore strategico.
I vantaggi sono legati al tuo benessere come responsabile e a quello del team: i collaboratori diventano più autonomi, imparano a proporre e sono meno dipendenti. All'inizio può sembrare impegnativo rispetto al dare subito la soluzione, ma spesso le soluzioni fornite in fretta non risolvono davvero il problema alla radice.
Tu avrai meno carico mentale, poiché il pensiero della soluzione è delegato, e le relazioni professionali saranno più solide.
Buona pratica.
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28. Quando la comunicazione è efficace.
La comunicazione è davvero efficace quando ha un effetto su chi ascolta. Qui ti aiuto a focalizzarti sul tuo pubblico mantenendo riconoscibile il tuo ruolo e il tuo sguardo.
La fatica che proviamo nel comunicare nasce spesso dall'ansia di dover essere valutato un "bravo comunicatore" e dal timore del giudizio. Ma quando la comunicazione è davvero efficace? Quando ha un effetto su chi ascolta. Qui ti aiuto a focalizzarti sul tuo pubblico.
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L'errore comune è confondere l'efficacia con la preparazione: molti pensano che la comunicazione sia efficace quando un discorso è ben fatto, ben ragionato, o costruito con gli "ingredienti giusti".
Ragionare sugli ingredienti è solo una premessa, non l'efficacia stessa, perché non risponde alla domanda su quando la comunicazione ottiene un effetto concreto. La parola efficacia è chiara: vuol dire che si ottiene un effetto.
Il fattore più importante per l'efficacia è il pubblico, l'ascoltatore. L'effetto deve essere su di loro. Puoi avere anche una presentazione mediocre, ma se ottiene l’effetto che ti eri prefisso sulle persone che ascoltano, la comunicazione è stata efficace. Ciò significa che la tua comunicazione deve essere pensata prima di tutto per quelle persone.
Il parametro di misura dell’efficacia della comunicazione.
Lo strumento di misura per capire se la comunicazione è efficace è il destinatario. Con 2 criteri chiave:
Se la persona è riuscita a capire il tuo messaggio.
Se la persona ha compiuto l'azione che tu desideravi, suggerivi o consigliavi.
Ma se cerchiamo il riconoscimento o vogliamo farci belli quando prendiamo parola, la comunicazione non funziona. Perché diventa uno strumento che ha come fine se stessi invece del vero focus, cioè chi ascolta. Il vero obiettivo dell’azione di comunicare dovrebbe essere aiutare le persone a capire il messaggio.
Come rendere la comunicazione efficace.
Aiuta l'ascoltatore a capire: la tua disposizione d'animo deve essere rivolta ad aiutare chi ascolta a capire il messaggio. Se devono essere loro a capire, devi trovare la buona ragione perché ti ascoltino.
Assumi il suo punto di vista: l'efficacia aumenta se riesci ad assumere il punto di vista del tuo interlocutore. Questo non significa "mettersi nei panni degli altri" (un'espressione vaga), ma comprendere il punto fisico da cui l'altro sta osservando le cose. Le sue idee, i suoi problemi, i suoi desideri, sogni, aneliti.
Chiarezza del tuo ruolo: puoi assumere il punto di vista dell'altro solo se hai chiarezza di chi sei tu, del tuo ruolo e di cosa puoi portare a quella persona. Il mio consiglio è assumere il suo punto di vista, ma mantenendo i tuoi panni. Mantenendo cioè il tuo ruolo, la tua professionalità, le tue credenze, il tuo sguardo. ➞ Su questo ti consiglio il video corso gratuito Fatti ascoltare, entra da qui
Toccare l'emotività dell’altro: è importante toccare l'emotività del tuo pubblico con rispetto. Rispetto significa che dovresti avere realmente a cuore le loro difficoltà, i loro problemi concreti, le loro preoccupazioni, i timori o le paure.
Verifica dell'efficacia del tuo messaggio.
Per verificare l'efficacia, ti consiglio di fare una prova con complice che faccia da pubblico test. Non chiedere mai se sei stato bravo/a, perché ripiegheresti su un giudizio sulla tua persona e non sull'efficacia della comunicazione. La domanda circa l'essere o non essere bravi è una domanda narcisistica. Ma a noi serve valutare l'efficacia, cioè l'effetto su chi ascolta.
Dopo aver dato la prova del tuo intervento, ti consiglio di cuore di chiedere:
che cosa hai capito di quello che ho detto?
che cosa ti è arrivato?
che cosa ti ha colpito di quello che ho detto?
Buona pratica.
Chi è Stefano Todeschi
Sono consulente e formatore specializzato in public speaking pratico. Lavoro con imprenditori, manager e professionisti appassionati che vogliono saper coinvolgere clienti e collaboratori durante presentazioni, incontri e meeting aziendali.
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27. Comunicare con sicurezza con la tecnica del focus.
Come aiutare chi ascolta i nostri interventi a mettere a fuoco bene i nostri concetti e il messaggio che vogliamo che capisca.
Comunichiamo in modo insicuro quando presentiamo i contenuti a raffica, non lasciando spazio a chi ascolta per comprendere i concetti, portando gli ascoltatori a perdersi e a sganciarsi dall'ascolto.
Qui vediamo come imparare a comunicare con sicurezza e autorevolezza, portando messaggi chiari grazie alla messa a fuoco graduale sui contenuti che stiamo esponendo in quel momento.
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Quando presentiamo contenuti correndo e a raffica, facciamo sentire un senso di insicurezza a chi ascolta. Che con tutta probabilità ha la sensazione che non siamo davvero concentrati (in focus) su ciò che stiamo dicendo, ma abbiamo una preoccupazione. Ansia di dire tutto, ansia da prestazione, paure sulla propria comunicazione…
Preoccuparsi significa occuparsi prima di ciò che non è ancora presente. È come guidare e preoccuparsi degli incroci successivi che sono ben più in là, perdendo di vista i metri che stiamo percorrendo adesso. Richiede dispendio energetico e produce confusione sul presente.
Il Focus come strumento di sicurezza.
La comunicazione insicura porta l'ascoltatore a perdersi e a sganciarsi dall'ascolto. Perciò è importante lavorare sul focus concentrandoci su ciò che stiamo dicendo in questo preciso luogo e a queste specifiche persone presenti.
Legge fondamentale della comunicazione: presentare significa letteralmente portare nel presente i contenuti.
Se stai portando contenuti che sono il tuo pane quotidiano e che conosci bene, perché devi preoccuparti così tanto di ciò che deve ancora venire? Il focus ci aiuta a non preoccuparci di ciò che ancora non abbiamo detto e ad occuparci di ciò che stiamo dicendo mentre lo stiamo dicendo.
Il focus funziona esattamente come la messa a fuoco della macchina fotografica. Ecco i tre passaggi, confrontati con la comunicazione in pubblico.
Soggetto a fuoco: in una fotografia il punto a fuoco è esattamente il concetto che stai portando in questo preciso momento.
Soggetto fuori fuoco o sfocato: in una fotografia sono le parti che riusciamo a cogliere, ma non distinguiamo i contorni con precisione. Nella comunicazione i soggetti sfocati corrispondono ai concetti che ci appartengono per ragioni di conoscenza nostra, ma che mentre stiamo parlando ancora non sono stati messi a fuoco. Noi sappiamo che esistono, perché ne siamo esperti. Chi ascolta invece ancora non ne conosce l'esistenza. La conoscerà mano a mano che noi procederemo con la nostra presentazione.
Nitidezza costruita: la nitidezza assoluta (il vero fuoco) è su un punto solo. Man mano che procediamo nel nostro intervento, spostandoci di fuoco in fuoco, i concetti già messi a fuoco restano nitidi. Questo costruisce per gradi l'immagine completa di ciò che stiamo dicendo.
Quando stiamo parlando, i concetti successivi sono fuori fuoco, ma non sono nel buio completo, perché stiamo parlando di cose che conosciamo. Il nostro lavoro è mettere a fuoco un punto dopo l'altro di questa immagine fotografica che è viva, come una sequenza di fotografie.
La sicurezza nel parlare è nel presente.
La sicurezza si genera quando quando smettiamo di preoccuparci, cioè occuparci prima di ciò che al momento non ci serve. Il vero lavoro è pensare alla cosa che stai dicendo nell'esatto momento in cui la stai dicendo, evitando di pensare a cosa dirai dopo.
Se ti focalizzi sul concetto e sulle persone presenti, e magari ti dimentichi quello che avresti voluto dire, con tutta probabilità significa che sei stato presente nel presente. Hai detto, cioè solo le cose che sentivi necessarie con queste persone in questo esatto momento. Questa è la ragione per cui ogni presentazione dovrebbe cambiare non solo nel tempo, ma anche in funzione del luogo e delle persone reali che si presentano di appuntamento in appuntamento.
Se dimentichiamo qualcosa che in seguito, tuttavia ritieni che sarebbe stato necessario dire, possiamo recuperarla e comunicarla successivamente. Mantenere un contatto con le persone ci permette di produrre un follow-up e dare continuità alla comunicazione, stimolando l'interazione. Per esempio, possiamo mandare un'e-mail di integrazione. Questo tiene caldo il contatto. Vien quasi voglia di dimenticare apposta di dire certe cose.
I concetti messi a fuoco possono essere visti come i puntini numerati della settimana enigmistica: li numeri in sequenza in quel momento, in base al presente e a ciò che interessa alle persone che ti stanno ascoltando.
Lo strumento pratico per parlare con sicurezza: la pausa.
Il vero obiettivo della comunicazione non è dire tutto, o dirlo bene o bello, ma dire ciò che serve alle persone presenti perché possano capire il messaggio.
Lo strumento pratico per riprendere il focus è la pausa.
[Ti spiego questo esercizio pratico in video qui.]
Ti consiglio di fare un esercizio: racconta un aneddoto (in 1 o 2 minuti) e rimani in focus su ogni passaggio. Ecco come fare:
quando descrivi cose o azioni guarda l'immagine che si sta creando nella tua mente;
per ogni cosa che vedi nella tua mente, fai una pausa lunga e silenziosa;
durante questa pausa, non guardare ciò che dirai dopo, ma riguarda ciò che è nitido, cioè i concetti che hai appena espresso;
sentirai che i concetti successivi arrivano in modo naturale.
Questo lavoro di focus ti porta a vedere le tue immagini mentali e a concentrarti solo su queste. In una presentazione, le immagini del racconto sono sostituite dalle immagini dei concetti. Se stai parlando del problema che vuoi affrontare, guarda l'immagine del problema. Se il problema si compone di più passaggi, ogni passaggio è una immagine. Il lavoro consiste nel mettere a fuoco ciascuna di queste immagini con calma, progressivamente, creando una nitidezza passo dopo passo.
Ciò che importa è sapere con chiarezza, dove vuoi arrivare con il tuo messaggio. Chiamiamo questo dove "idea centrale" o "messaggio chiave" o tesi. Ne ho parlato qui.
Buona pratica.
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26. Comunicazione efficace: la voce autorevole non si imposta, si allinea.
Come valutare in tempo reale l'efficacia della tua comunicazione per assicurare che chi ti ascolta comprenda davvero il messaggio.
Quando dobbiamo comunicare decisioni difficili o ci troviamo in trattative cruciali, chi ascolta può percepire un'interferenza, uno stridore, tra le parole del messaggio e la nostra espressività. È una minaccia della fiducia e della nostra autorevolezza.
Spesso cerchiamo soluzioni esterne e tecniche come per esempio, lo studio della dizione, che però mascherano l'origine del problema, concentrandoti sulla performance anziché sul messaggio. Qui vediamo come facilitare la comprensione del messaggio costruendo coerenza fra ciò che stai dicendo e il tuo pensiero sulle cose che dici.
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Lo scopo è comunicare in modo efficace, ovvero facilitare la comprensione del messaggio. Oggi vediamo come costruire coerenza fra come dici le cose e il tuo pensiero sulle cose che stai dicendo. La coerenza è la base per la comprensione.
Il problema delle soluzioni tecniche (ad ogni costo).
Istintivamente, pensiamo che il problema sia la voce e cerchi soluzioni esterne e tecniche. Magari ci dicono: devi parlare con il diaframma (il che è una ridondanza, dato che respiriamo sempre usandolo), devi imparare la dizione per essere autorevole, o devi usare un tono di voce basso per sembrare più sicuro. Queste esortazioni non sono totalmente sbagliate, ma rischiano di diventare fuorvianti.
La dizione perfetta, per esempio, non è essenziale; rifletti sul fatto che la maggior parte delle persone di successo (vedi YouTube o i social) non ha una dizione impeccabile. Piuttosto sarebbe più opportuno parlare di dizione utile.
Quando parlo di dizione utile intendo che il messaggio sia facile da comprendere. Concentrarsi sull'usare un tono di voce basso per sembrare più sicuro è pura finzione. Finisci per recitare, concentrandoti sulla performance anziché sul messaggio o sull'interlocutore che ti deve ascoltare. Dobbiamo evitare di cadere nel prestazionalismo, che è solo stressogeno per noi.
Pensa all'interferenza che disturba l'ascolto della radio: alzare il volume non serve. Il problema non è nell'amplificatore, ma a monte, nel segnale. Nella comunicazione, quell'interferenza è l'incongruenza fra ciò che pensi e ciò che dici. La voce autorevole – intesa come voce fisica, ma anche come pensiero, concetti e idee – non si costruisce con la pura tecnica, ma è la conseguenza della coerenza tra ciò che pensiamo e ciò che stiamo dicendo.
Incongruenza tra mente e corpo.
Ti porto l'esempio di una manager che ho seguito, Giulia. Mi diceva che la sua autorevolezza svaniva quando comunicava decisioni importanti perché il team la percepiva nervosa e agitata.
Durante la nostra sessione, le ho chiesto di comunicare una nuova procedura. Il problema è apparso subito evidente: la voce tesa, il ritmo spezzato, come se scattasse continuamente. Le mani, un sintomo molto utile, si muovevano rapidamente, sottolineando ogni accento tonico con gesti secchi. Il suo corpo comunicava ansia e insicurezza, per certi versi anche una certa di aggressività. L'aggressività è spesso una maschera per l'insicurezza, la reazione di chi si sente braccato e non può fuggire.
Le parole di Giulia dicevano: "Questa è la nuova procedura", ma la sua espressività urlava: "Speriamo che vada tutto bene". Questa incongruenza totale era l'interferenza fra il suo pensiero e la sua comunicazione.
Trovare la coerenza: l'esercizio della piscina.
Ho chiesto a Giulia di ripetere l'intervento, modificando un parametro. Le ho detto di immaginare di essere immersa fino alle spalle nell'acqua (in piscina o al mare) e di muovere le braccia con dolcezza e lentamente, vincendo l'attrito dell'acqua.
Nonostante una certa rigidità iniziale (il tentativo di dare la prestazione), il movimento fluido l'ha costretta a rallentare. Il respiro si è fatto più profondo e pulito, e la voce ha seguito questo fluire. La voce è diventata più morbida e il tono più basso, non per uno sforzo tecnico, ma come effetto di un atteggiamento diverso. Giulia mi ha detto di sentirsi più calma, ma anche più in potere.
Quando sentiamo coerenza fra ciò che diciamo e ciò che pensiamo, sentiamo un maggiore potere, inteso come possibilità. La sua vera autorevolezza è emersa trovando questa coerenza. Calmando il corpo, ha calmato la mente e la voce.
Esercizi pratici per l'allineamento di mente ed espressività del corpo.
Ti propongo due esercizi per fare pratica:
Corpo e contenuto (karate vs. acqua).
Scegli un contenuto forte (un ordine o un consiglio importante che vuoi dare a aqualcuno).Fase 1 (karate): dillo dando colpi secchi e veloci con la mano, come colpi di karate. Senti come la voce si trasforma, diventando dura, ritmata, quasi aggressiva. Questa espressività può servirti per dare un consiglio finale, chiaro e memorabile, ma devi esserne consapevole. Se ne sei consapevole, non c'è il rischio di aggressività, ma il desiderio di sostenere chi ti ascolta.
Fase 2 (acqua): dì lo stesso messaggio (anche parafrasando) muovendo le braccia lentamente, come se fossi immerso nell'acqua di una piscina. Sentirai come la voce segue questo fluire morbido, ammorbidendosi. Il corpo rallenta, il tono può abbassarsi, e potresti notare anche un cambiamento nel lessico. Questo ti mostra come dimensione corporea, parole, lessico e pensieri costituiscano un sistema unico.
Intenzione e tecnica.
Registra un breve audio di un minuto in due fasi.Fase 1 (pura forma): sforzati di parlare bene. Concentrati sul tono, il ritmo e una dizione perfetta. Prova!
Fase 2 (intenzione): ora, invece, ignora completamente la forma.
Concentrati solo su tre o quattro parole chiave che devono arrivare a chi ascolta. Evidenziale mentalmente, come con un pennarello evidenziatore immaginario.
Riascoltando, sentirai che il secondo audio è più autentico e autorevole perché hai lavorato sull'intenzione, che ha preso il posto della tecnica. Non devi focalizzarti sul giudicare la forma, ma sulla coerenza tra ciò che dici e il pensiero che hai su ciò che stai dicendo.
La voce è l'eco di tutto ciò che senti in te mentre parli. (vedi Come capire se stai comunicando bene. La prova del 9 della tua comunicazione > LINK)
Alle persone interessa capire il messaggio per valutare se è utile, non la nostra forma ossessivamente perfetta.
L'autorevolezza nasce quando corpo, pensiero e parole puntano nella stessa identica direzione.
È solo quando raggiungiamo questa integrazione che finalmente stiamo comunicando.
Buona pratica.
25. Come capire se stai comunicando bene. La prova del 9 della tua comunicazione.
Come valutare in tempo reale l'efficacia della tua comunicazione per assicurare che chi ti ascolta comprenda davvero il messaggio.
Come valutare in tempo reale l'efficacia della tua comunicazione, dato che il feedback del pubblico arriva spesso solo quando l'intervento è finito?
Esiste un modo immediato e preciso per valutare la congruenza della tua comunicazione e assicurare che chi ti ascolta comprenda davvero il messaggio, e accade mentre stai parlando.
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Di solito, la domanda "Come faccio a capire se sto comunicando bene?" trova risposta nella reazione di chi ci ascolta: se annuiscono o se si ottiene il risultato voluto. Ma questo feedback arriva quando la comunicazione è già finita.
Esiste un modo più immediato e preciso per capirlo, e avviene esattamente mentre stai parlando. La vera prova del nove non è negli occhi di chi ascolta, ma nelle tue percezioni: la sensazione che provi mentre parli è la misura immediata della tua efficacia. Non devi neanche ragionare, lo senti subito. Vediamo come usare bene queste auto percezioni.
L'Assioma Zero della comunicazione e la congruenza
Prima di arrivare al pubblico, il messaggio parte da te. Qui introduco quello che io chiamo l'Assioma Zero della comunicazione:
Quando parli, la prima persona che ti ascolta sei tu, tu stesso, tu stessa. Sei il primo soggetto a entrare in relazione con la tua comunicazione.
Questo significa che c'è sempre una doppia conversazione in corso: quella con gli ascoltatori e quella che hai con te stesso. Le sensazioni che produci in te stesso ti condizionano. Se non sei convinto di ciò che dici, la voce, il corpo, la postura e lo sguardo te lo fanno sentire immediatamente, generando insicurezza, rigidità o vuoto. Se ignori queste sensazioni, l'insicurezza cresce in un circolo vizioso: più ti senti incongruente, più comunichi male.
L'efficacia si basa sul principio di congruenza: ciò che stai dicendo deve essere congruente con le tue intenzioni e con ciò che pensi o senti realmente sull'oggetto della comunicazione. Se manca questa congruenza, si innesca una frizione interna che rende la tua espressività inefficace. Come se stessi dicendo agli ascoltatori: "Ti sto dicendo delle cose, ma non crederci".
Se non sei un attore professionista, che sa fingere, è necessario che tu ti senta congruente con quello che pensi mentre parli.
Quando, invece, senti congruenza — quando ciò che dici suona vero e necessario — il tono si stabilizza, il corpo si apre e la voce si riempie. In quel momento, stai vivendo un'esperienza di autorevolezza, diventando autore di ciò che dici. Questo genera un circolo virtuoso di fiducia in te stesso, che transita al pubblico.
Esercizio pratico: imparare ad ascoltarti
Le sensazioni sono immediate e precognitive, ma l'ascolto ragionato di sé richiede attenzione e allenamento.
Per raggiungere la consapevolezza iniziale, ti propongo un semplice esperimento:
Scegli un argomento che ti mette alla prova o che è nuovo, come un nuovo prodotto o progetto.
Registra con lo smartphone e parla a ruota libera per 2-5 minuti, senza appunti.
Riascolta senza giudizio, con solo curiosità (cura di sé).
Nota i sintomi: non guardare la qualità della voce, ma nota i punti in cui si irrigidisce, cala il volume, si spezza o ci sono esitazioni. Oppure nota i momenti in cui la voce si apre e senti forza.
Tutto ciò che senti non è casuale: è il tuo corpo che ti restituisce la misura della tua congruenza tra ciò che dici e ciò che pensi/senti. Solo dopo aver imparato ad ascoltarti "da fuori", potrai farlo "in diretta" — espresso — mentre interagisci realmente.
Le 3 mosse per capire l'efficacia della tua comunicazione.
Quando senti subito se sei incongruente, hai due opzioni: o vai avanti accelerando e aggiungendo parole (soffocando il messaggio), oppure ti fermi. Fermarsi è l'opzione più controintuitiva ma necessaria: riprendi il tuo stato psicofisico.
Per applicare la prova del nove della comunicazione in pratica, segui queste tre mosse:
Ascoltati (osservazione): durante la comunicazione, nota il tono, il ritmo, il respiro, la postura (se ti chiudi, se stai correndo). Questo ascolto è osservazione senza giudizio, che raccoglie dati.
Nomina la sensazione: dai un nome a ciò che senti: "Mi sento convinto", "Mi sento esitante", "Mi sento vero". Nominala per renderla visibile e darle un significato. Ricollega il nome ai dati oggettivi che hai osservato (postura, tempi, ecc., non solo voce).
Indaga la buona ragione: se senti una non congruenza, chiediti il perché. Ci deve essere una ragione sufficiente: forse non credi davvero a ciò che dici, l'argomento non lo senti tuo, lo strumento che stai usando non ti convince, o non ti senti pronto. Oppure che altro?
Riconoscere queste ragioni è il punto di partenza necessario per evitare di continuare a parlare "facendo finta di nulla". Le buone sensazioni (calma, chiarezza, energia) sono il primo segnale che stai comunicando convinto di ciò che dici. Le persone hanno bisogno di relatori convinti.
Sperimenta subito.
Le sensazioni fisiche sono sintomi che riflettono la tua congruenza. Non servono mantra autopersuasivi che rischierebbero solo di creare altra incongruenza. Si tratta invece di indagare su te stesso.
Sperimenta subito: registra un tuo intervento e analizza le sensazioni, poi allenati a farlo in diretta. Se percepisci una non congruenza, non forzare. Fermati, respira, riformula rallentando, oppure dichiara ciò che davvero pensi. In quel momento, scoprirai che stai costruendo una fiducia in te stesso reale, basata sulla congruenza fra ciò che dici e ciò che pensi.
Buona pratica.
24. Come rispondere alle domande senza ansia, con autorevolezza.
Come gestire interviste formali e informali, smontando il meccanismo della preparazione ossessiva. L'obiettivo è cambiare prospettiva: trasformare ogni domanda da minaccia a opportunità, rendendo la tua comunicazione più incisiva e naturale.
Tendiamo a prepararci eccessivamente per interviste e domande, temendo il giudizio di chi ci ascolta. Questa ansia da preparazione ci rende paradossalmente meno efficaci.
In questo episodio analizziamo come gestire interviste formali e informali, smontando il meccanismo della preparazione ossessiva. L'obiettivo è cambiare prospettiva: trasformare ogni domanda da minaccia a opportunità, rendendo la tua comunicazione più incisiva e naturale.
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Ogni imprenditore, manager o professionista quotidianamente risponde a domande. Siamo tutti soggetti a interviste nelle quali ci prendiamo responsabilità delle cose che diremo. Il problema comune è la tendenza a dedicare ore alla preparazione. Immagini tutte le possibili domande e studi le risposte perfette, spinto dall'ansia da prestazione e dalla paura di fare scena muta in una società che sembra costantemente metterci sotto esame.
Questo sforzo immane, benché nato dalle migliori intenzioni, in realtà si rivela una trappola che ti rende meno efficace e ti affatica, distraendoti dal centrare la domanda reale.
La vera strategia è radicale: per rispondere con autorevolezza, non devi prepararti di più, ma prepararti di meno e imparare ad ascoltare meglio. Vediamo come.
Ti fanno domande, perché ti hanno già riconosciuto autorevole.
Riceviamo domande in due tipi di interviste:
interviste formali: in radio, televisione, con un giornalista, podcaster o un blogger, ad esempio.
interviste informali: con clienti, colleghi e collaboratori.
In entrambe le situazioni, ti vengono poste domande perché sei riconosciuto come persona autorevole ed esperta, capace di fornire risposte interessanti.
Proprio per questo, diversamente da quello che possiamo pensare, ogni volta che sei intervistato, non ti trovi in una sorta di esami.
Di fatto la persona che ti intervista non è un esaminatore che conosce già la risposta, ma qualcuno che vuole sapere cose da te.
Perciò, se ascoltiamo gli altri solo pensando a cosa dire per fare bella figura, rischiamo di arrivare sfiniti e di ripetere concetti già espressi, annoiando chi ascolta.
Dobbiamo trasformare la fatica della preparazione in leggerezza, applicando il principio imprenditoriale della minima spesa, massima resa. La massima resa nella comunicazione si ottiene quando chi ascolta riesce a capire senza sforzo.
La soluzione per la minima spesa energetica è smettere di andare a caccia di argomenti, usando invece solo gli ingredienti che l'interlocutore ti offre su un piatto d'argento. La domanda stessa è una "dispensa" o un "frigorifero" pieno di ingredienti pronti per essere cucinati.
Le due fasi per rispondere alle domande nelle interviste formali e informali.
1. Ascolta in modo completo (apri la dispensa). Durante questa fase, la tua priorità è ignorare te stesso, i tuoi pensieri, le tue ansie e le risposte che ti frullano in testa. Devi focalizzarti al 100% sull'interlocutore in un ascolto attivo, chirurgico e, soprattutto, completo.
Prendi appunti (mentali o su un foglio, se il contesto lo permette) annotando solo le parole chiave o i concetti che ti colpiscono. Questi sono i tuoi ingredienti; tutto il resto non conta. Consiglio pratico: le parole che colpiscono di più spesso sono pronunciati con un'espressività diversa dalle altre.
2. Cucinare il piatto (rispondi). Una volta che hai gli ingredienti, sei pronto per cucinare, sei pronto per iniziare a rispondere.
La regola fondamentale è: parti da uno degli ingredienti.
Inizia la tua risposta usando una delle esatte parole che hai sentito e annotato. Usa le parole dell'intervistatore per inquadrare e spiegare lo stato dell'arte della situazione o la problematica. Puoi fare anche una sintesi della domanda, richiamando i concetti che richiede principali. Questo potrebbe sembrare una ripetizione inutile. In realtà, si tratta di un inquadramento chiaro che comunica a chi ha posto la domanda "siamo sulla stessa pagina". Un altro risultato è sul pubblico che ascolta: si rende conto che stai davvero rispondendo alla domanda. Questo lo tranquillizza, mi facilita l'ascolto e la comprensione.
Solo dopo aver creato questa base comune, inserisci la tua prospettiva e la tua esperienza.
Ecco il passaggio chiave, che purtroppo molte persone ignorano o temono addirittura: usare immediatamente ad alta voce le parole dell'interlocutore innesca automaticamente il processo cognitivo della tua risposta, aiutandoti a ripescare i concetti che ti sono propri. Con lo scopo di metterli in diretta, connessione con gli ingredienti che ti sono stati consegnati. E chi te li ha consegnati si sentirà chiaramente ascoltato.
Ogni domanda, in questi casi, non è un esame, ma un regalo. Perciò, d'ora in poi puoi smettere di spendere ore a preparare risposte. Il mio consiglio è di cominciare a usare quel tempo per allenare il tuo ascolto. Gli ingredienti per la tua autorevolezza sono già lì, nel frigorifero.
Buona pratica.
23. Perché parliamo in pubblico.
Attraverso esercizi pratici puoi trasformare l'ansia di parlare in pubblico in consapevolezza, sviluppando un modo di comunicare autentico e autorevole che nasce, non da schemi rigidi, ma dalla tua unicità. Questo processo ti permette di chiarire il tuo pensiero, ridurre la fatica e creare una comunicazione più efficace e leggera.
Parlare in pubblico serve a fare una performance perfetta? Sarebbe solo fonte di stress, se fosse così.
La bellezza del parlare in pubblico sta nello scoprire chi sei e cosa pensi davvero.
Attraverso esercizi pratici puoi trasformare l'ansia in consapevolezza, sviluppando un modo di comunicare autentico e autorevole che nasce, non da schemi rigidi, ma dalla tua unicità. Questo processo ti permette di chiarire il tuo pensiero, ridurre la fatica e creare una comunicazione più efficace e leggera.
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Prima di un intervento importante o di un'interazione con altre persone, molti provano una sensazione di peso sullo stomaco, la paura di bloccarsi o di non essere all'altezza. È ansia da prestazione.
L'Assioma Zero della comunicazione.
Spesso, cerchiamo di combatterla controllando ogni aspetto del discorso – i gesti, la voce, tutto schematizzato e pre definito… – trasformando la comunicazione in una fatica sanguinosa.
Oggi, ti propongo di cambiare completamente approccio: smettere di combattere contro te stesso e concentrarti sui benefici diretti che puoi ottenere quando parliamo e interagiamo. Spesso ignoriamo questi vantaggi personali perché siamo troppo concentrati sulla performance, sul fare bella figura, sul dimostrare di essere bravi e di saperla lunga. Una questione culturale che dobbiamo scardinare.
Il punto è vivere ogni interazione non per dimostrare qualcosa agli altri, ma per comprendere di più e meglio qualcosa di noi stessi.
È questo che ci prepara all'interazione con gli altri, sia umanamente sia professionalmente. Ci permette di trasformare l'ansia in consapevolezza, e questa consapevolezza si trasmette a chi ci ascolta, che potrà percepire la nostra autorevolezza. Autorevole è chi è autore di ciò che dice.
Gli assiomi della comunicazione sono cinque secondo lo psicologo Paul Watzlawick. Ma ve n’è un sesto che li precede tutti. Io lo chiamo l'assioma numero Zero. Perché se è vero che gli assiomi di Watzlawick sulla comunicazione hanno a che vedere con la relazione, quando apriamo bocca per comunicare ad almeno una persona la prima relazione che instauriamo è con noi stessi.
L’Assioma Zero della comunicazione: quando parli, la prima persona che ti ascolta sei tu.
Te ne accorgi quando parli e senti di non essere convinto di ciò che dici, o lo dici in modo debole, magari incespicando. Questo ti può affaticare e farti sentire sempre più insicuro. Vale anche il contrario: quando senti che stai facendo una bella presentazione o una buona interazione, ti senti galvanizzato, pieno di energia positiva.
Parlare in pubblico significa uscire dalla sfera privata ed esternare i tuoi contenuti e pensieri ad almeno un'altra persona.
Questo accade sia nelle presentazioni o discorsi preorganizzati (per un prodotto, un servizio, un discorso motivazionale), sia nelle interazioni più imprevedibili, dove possono arrivare domande o obiezioni inaspettate. Esistono anche situazioni ibride, come sessioni di domande e risposte dopo una presentazione o presentazioni improvvisate durante una riunione. In ogni caso, non sei più nella sfera privata.
A cosa serve parlare in pubblico.
L'azione del parlare in pubblico ti offre 4 opportunità principali:
Sviluppare la tua originalità e autenticità: diventi l'origine delle tue parole, che nascono dalla tua esperienza di vita e professionale, non solo dai titoli o dai ruoli che ricopri.
Ridurre la fatica e semplificare la comunicazione: sposti il focus dal parlare bene al farti capire. Le altre persone devono capire il tuo messaggio, e il loro apprezzamento sarà una eventuale conseguenza. Questo alleggerisce la pressione della performance, che è la vera fonte di ansia e fatica, e ti libera dal prestazionalismo, il vizio di voler dare una bella prestazione per dimostrare la propria bravura.
Organizzare e chiarire il tuo pensiero a te stesso: l'atto di esprimere le tue idee ad alta voce, una per volta e in relazione tra loro, ti permette di ricontare i tuoi pensieri e scoprire cosa pensi davvero, anche a un livello più profondo. Chi ha: sei la prima persona che si ascolta in ogni momento, dalla ricerca delle idee per una presentazione, alla strutturazione della presentazione stessa, fino al momento in cui darai la presentazione davanti al tuo pubblico. Ma lo stesso vale nelle interazioni espresso, quelle che avvengono lì per lì e che non erano previste.
Superare l'ansia e il senso di incertezza: parlare in pubblico ti offre allenamento e consapevolezza di te nella situazione reale, con persone reali. Più lo fai, più raggiungi chiarezza sulla tua presenza fisica e mentale. La prima persona che ti ascolta quando parli, sei tu: significa che non solo ti alleni nella pratica del fare, ma anche nella pratica del meglio comprenderti e ascoltarti mentre fai.
Spesso, quando cerchiamo un metodo per comunicare, ci affidiamo a schemi che sembrano semplificarci la vita, come i giochi per bambini dove si inseriscono formine colorate nei buchi giusti. Tuttavia, il problema non sono gli schemi in sé, ma la loro applicazione rigida e schematica. Ridurre la preparazione a un semplice riempire gli spazi vuoti rischia di sterilizzare la tua idea, per quanto complessa e coinvolgente possa essere. La tua idea non è una semplice formina: costringerla in uno schema può snaturarla.
Il vero problema è conformare il tuo pensiero allo schema. Se lo fai, rischi di non riconoscerti più in ciò che dici, e questo peggiora le cose sul piano dell'ansia, incrementando il disagio.
La comunicazione efficace non nasce dal trovare lo schema perfetto in cui inserire le tue idee, ma dal capire qual è la tua forma, la tua voce unica. Da lì puoi costruire un modo di esprimerti che ti assomigli, partendo da ciò che hai.
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Il punto chiave di tutto è che noi parliamo in pubblico non solo per comunicare idee, ma anche per scoprire chi siamo e cosa pensiamo davvero. Questa filosofia si traduce in pratica attraverso esercizi concreti.
Esercizi pratici per parlare in pubblico.
Ti propongo due esercizi pratici che ho visto funzionare nelle mie formazioni individuali e aziendali, capaci di trasformare la preparazione in un laboratorio di consapevolezza personale.
1. La scoperta in attesa. Esegui da solo. Registrati per un paio di minuti mentre parli di un tema che ti sta a cuore (la prossima presentazione, una risposta a una domanda tipica).
Poi riascoltati. L'obiettivo non è darti un voto, ma andare a caccia di sorprese. Trascrivi due o tre momenti che ti hanno sorpreso: un lapsus, un'inflessione strana della voce, un'esitazione improvvisa, un incremento o decremento di energia. Poi, poniti domande come queste:
Cosa stavo pensando davvero in quel momento?
Cosa c'era sotto quella parola, quell'esitazione, quell'energia diversa?
Spesso è proprio nell'inatteso, nell'errore (inteso come errare, prendere una strada diversa) che si nasconde il tuo pensiero più autentico, quello non filtrato dal controllo e non eccessivamente razionalizzato.
2. La domanda dell'altro. Esegui da solo. Prendi uno dei tuoi contenuti chiave e esponilo per un minuto ad alta voce. Poi fermati e immagina di essere uno dei tuoi interlocutori più difficili (un cliente scettico, un collaboratore critico). Può aiutarti la visualizzazione di una persona.
A questo punto, formula ad alta voce l'obiezione più tosta che questa persona potrebbe farti, magari una che hai già sentito o che temi di più, (non una domanda comoda).
Infine, rispondi con calma a quell'obiezione, smontandola parola per parola e connettendo la risposta a ciò che avevi appena detto. Questo esercizio è potentissimo perché ti costringe a uscire dal tuo punto di vista e a guardare il tuo pensiero con gli occhi degli altri, scoprendo punti deboli o premesse date per scontate. Non stai preparando una difesa, ma rendendo il tuo pensiero più solido e autentico. Nelle formazioni individuali, smontiamo ogni osservazione con domande cardine, come “Cosa sto dando per scontato?” o “È proprio così?”
Che senso ha la pratica per parlare in pubblico
Fare questi esercizi non serve a costruire il discorso perfetto, che peraltro non esiste e richiede una fatica immane. Serve piuttosto a liberarti dalla trappola del discorso perfetto, a ridurre la fatica e a smettere di voler recitare una parte o la migliore versione di te stesso (quale sarebbe?). Ti permette di iniziare a parlare dalla tua esperienza, rendendo la comunicazione più semplice e leggera.
Servono a rispondere a una domanda fondamentale: “Perché proprio io posso dire queste cose?”
Questo è il passaggio dal devo al posso, scoprendo la tua unicità come persona e professionista. Se tu la pensi così devi conoscere te stesso a fondo per capire come la tua unicità può fare la differenza per le persone che potranno ascoltarti.
Quando rispondi a queste domande, smetti di cercare la formina giusta per il buco giusto e di voler performare. Inizi a conoscere la tua forma autentica, il tuo poliedro originale. La tua comunicazione diventa una conseguenza naturale di chi sei. Diventi autentico, cioè autore, e non c'è niente di più autorevole di questo.
Il repertorio non è una collezione di discorsi imparati a memoria, perché ogni pubblico e ambiente cambia tutto. Il repertorio è l'insieme dei tuoi pensieri, delle tue idee, non il modo di dirle (che cambierà in base a contesto e persone di fatto presenti al momento).
Ricorda: la prossima volta che parli, non stai dando una prestazione, stai facendo un'esperienza di te.
Buona pratica.
22. La base per strutturare una presentazione o un discorso
La base per strutturare una presentazione è una singola idea centrale (tesi), chiara e semplice, che incarna il tuo sguardo unico sull'argomento. Non si tratta solo di informare o esporre un problema, ma della tua specifica proposta o visione per renderla indimenticabile al tuo pubblico.
La base per strutturare una presentazione è una singola idea centrale (tesi), chiara e semplice, che incarna il tuo sguardo unico sull'argomento. Non si tratta solo di informare o esporre un problema, ma della tua specifica proposta o visione per renderla indimenticabile al tuo pubblico.
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Quando comunichi le persone non ti stanno mettendo sotto esame. Quando comunichiamo le persone desiderano capire ciò che stiamo dicendo.
Il vero obiettivo è far sì che chi ti ascolta capisca la tua idea. La tua idea dovrebbe essere unica, proprio come unico è il tuo sguardo professionale. Vediamo.
La tesi: l'idea centrale e lo sguardo personale
La tesi è l'idea più importante che vuoi che le persone si ricordino della tua presentazione. Deve essere semplice e guidarti in ogni momento. È il punto di fuga verso cui convergono tutte le linee del tuo discorso. Senza una tesi chiara, le persone non capiranno dove vuoi andare a parare.
Spesso, molte persone pensano che la tesi sia "far capire come stanno le cose". Questo, però, è al massimo formazione o insegnamento, una lezione. Se il tuo intento è solo spiegare il funzionamento tecnico dell'intelligenza artificiale, ad esempio, rischi di risultare un divulgatore intercambiabile. Il rischio è che tu diventi una "commodity", un docente come un altro.
La vera differenza la fa il tuo sguardo.
Il punto di vista è legato al ruolo o ai titoli (un avvocato ha il punto di vista legale, un commercialista quello contabile, e sono tecnicamente intercambiabili).
Lo sguardo, invece, è molto più profondo: c'è la persona, la sua esperienza di vita, le sue visioni del mondo e del settore professionale. È la ragione per cui preferiamo un medico o un avvocato rispetto a un altro, anche se hanno le stesse qualifiche. È ciò che rende la tua idea unica, anche se il tema è simile a quello di altri.
Una tesi, quindi, non è un dato di fatto ("se piove mi bagno" o "se crescono le commesse dobbiamo assumere nuovo personale"). Una vera tesi esce dalla norma e propone uno sguardo nuovo, ad esempio: "se crescono le commesse, dobbiamo assumere nuovo personale, purché condivida la nostra mission". Oppure: "se crescono le commesse dobbiamo assumere nuovo personale purché dotato di autonomia di giudizio, anche se non condivide la nostra mission”.
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L'unicità della tesi
Un errore comune è pensare di avere più tesi o messaggi centrali. La tesi (o idea centrale) deve essere unica: su di essa ruota tutto. Tutte le altre idee sono satelliti di questa idea centrale. Questo semplifica l'ascolto a chi ascolta.
Possiamo distinguere due macro tipologie di tesi:
Tesi informative: mirano a comunicare nuove informazioni o a sfatare credenze consolidate. Un esempio è "le zanzare non sono attratte primariamente dalla luce, ma dagli odori degli umani". Qui il focus è convincere sul risultato delle nuove ricerche scientifiche, sfatando ciò che la scienza stessa pensava prima di oggi.
Tesi persuasive: l'obiettivo è portare le persone ad apprezzare la tua idea (il tuo sguardo) e a compiere un'azione. La forma più semplice è "per ottenere X, fai Y" o "se fai Y, allora ottieni X". Esempi includono convincere all'acquisto, ad assumere comportamenti specifici (come nei TED Talk o discorsi motivazionali). Qui lo speaker dimostra che la propria idea è superiore grazie al suo sguardo unico.
Come trovare ed esprimere la tua tesi
Il mio consiglio più pratico è di esprimere la tua tesi prima di tutto a te stesso. Fallo in poche parole, in modo semplice e chiaro, senza argomentazioni. L'ideale è 10-15 parole massimo. So che non è facile.
A volte, questa idea centrale non è chiara fin dall'inizio. Non preoccuparti, è normale. In quel caso, suggerisco di compiere un lavoro di ricerca delle idee, di provare l'intervento ad alta voce e prendere appunti per capire quale idea guidi tutte le altre. Se ci sono più "centri di gravità", il rischio è confondere chi ascolta.
Buona pratica.
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21. Comunicare bene le azioni da fare (in riunioni e presentazioni)
La comunicazione professionale deve sempre tradursi in azioni concrete, che vanno comunicate con chiarezza. Vediamo come fare.
La comunicazione professionale deve sempre tradursi in azioni concrete, che vanno comunicate con chiarezza. È fondamentale che queste azioni siano 1) precise (quando, dove, come), 2) pulite (senza ripetizioni o parafrasi) e 3) che definiscano inequivocabilmente la responsabilità di chi le deve compiere per garantirne l'effettiva realizzazione. Vediamo come fare.
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Ogni volta che comunichiamo, l'aspettativa è chiara: vogliamo che accadano delle cose. Ci attendiamo che le persone prendano decisioni o assumano comportamenti coerenti con i nostri desideri e con il contesto professionale. Comunicare solo per esprimere se stessi, senza tradurlo in azioni concrete, non è utile nella nostra attività.
Ecco una sintesi della puntata del podcast, ma ti consiglio di ascoltarlo, ti aiuterà a ragionare e riflettere sulla tua situazione.
Il mio sistema R.O.R.A. (Referente, Obiettivo, Relazione, Azione) pone l'azione come il risultato finale concreto a cui miriamo con la nostra comunicazione. L'Azione è supportata da buone Ragioni, un Obiettivo definito e la Relazione con chi ci ascolta.
1. 2 macro ambiti della comunicazione con persone (il public speaking)
Questo vale in due macro ambiti fondamentali che distinguo sempre quando parlo di comunicazione:
le presentazioni: qui rientrano le presentazioni con PowerPoint, i discorsi, le presentazioni pubbliche e le lezioni per formazioni. Abbiamo spesso un contenuto preparato con l'obiettivo di guidare il pubblico verso specifiche azioni, come ad esempio scaricare un PDF o acquistare una proposta commerciale;
le interazioni: si tratta di momenti in cui non c'è un discorso preparato, ma improvvisiamo, reagendo o agendo in base a ciò che accade nel dialogo con le persone. Anche qui l'obiettivo finale sono azioni concrete che l’interlocutore dovrebbe poter compiere.
In entrambi questi ambiti, il focus sulle azioni è vitale.
2. Fare riunioni finalizzate alle azioni da compiere.
Quando comunichiamo queste azioni, dobbiamo considerare il contesto. Se ragioniamo su come funzionano riunioni e meeting aziendali, capiamo meglio l'importanza della chiarezza sulle azioni perché ci sta ascoltando. Ciò che riguarda le riunioni può essere poi utile anche per presentazioni, talk e discorsi.
Distinguo due tipologie principali di riunioni:
Riunioni (o fasi) esplorative, dove analizziamo un problema, cercando il parere e l'opinione dei partecipanti. Le azioni da compiere non sono pre-decise, ma emergeranno dall'esplorazione. Nelle presentazioni, nei talk nei discorsi, questo si traduce nel permettere al pubblico di riflettere e ragionare sulla propria esperienza personale grazie alle nostre parole.
Riunioni (o fasi) informative, dove l'obiettivo è informare su qualcosa e indicare le azioni che devono essere compiute (ad esempio, per conformarsi a una normativa). Le azioni sono già confezionate. Nelle presentazioni, nei talk nei discorsi l'intento informativo è pervasivo. Ogni parte, anche quella che aiuta a ragionare e riflettere, da informazioni. Queste possono contemplare storie, dati, aneddoti, teorie o più in generale i concetti a supporto della nostra idea.
Attenzione a non mascherare una riunione informativa come esplorativa, chiedendo pareri quando le decisioni sono già state prese. Questo mina la fiducia e la disponibilità alla collaborazione.
Le azioni stesse, come suggerisce Brian Tracy, possono essere di 4 tipi:
Cominciare a fare qualcosa.
Smettere di fare qualcosa.
Continuare a fare qualcosa aumentandone la frequenza.
Continuare a fare qualcosa diminuendone la frequenza (utile quando non si può interrompere un'azione problematica immediatamente, ma si attende di sostituirla).
3. Come comunicare un'azione per aiutare chi ascolta a compierla.
Per comunicare efficacemente le azioni, ti consiglio di focalizzarti su 3 caratteristiche chiave:
Precisione: l'azione deve essere descritta in modo puntuale specificando quando e dove deve essere compiuta, il perché (che è implicito nel referente e nell'obiettivo, ma utile da richiamare), e soprattutto il come, cioè la sequenza di passaggi.
Pulizia: comunica l'azione una sola volta, in modo netto e semplice. Evita di ripetere la stessa azione con parafrasi o modi leggermente diversi, perché questo può generare confusione nel tuo interlocutore, che si chiederà se non ha capito o se stai solo ripetendo la stessa cosa (e perché mai tu lo stia facendo).
Responsabilità: deve essere chiaro chi deve compiere l'azione. La responsabilità è fondamentale perché facilita la comprensione di cosa sarà successo nel caso in cui le azioni non vengano compiute. Un'azione o si compie o non si compie: "fatta male" significa "non fatta" o "fatta in altro modo".
In sintesi, niente giri di parole, dritto al punto.
Buona pratica.
20. Creare e gestire relazioni professionali migliori.
Come costruire relazioni professionali efficaci e autentiche. Il segreto sta nella capacità di trasformare l'interlocutore nel proprio miglior consulente. Lo scopo è ridurre la fatica per ottenere la migliore collaborazione professionale con clienti e collaboratori.
Come costruire relazioni professionali efficaci e autentiche. Il segreto sta nella capacità di trasformare l'interlocutore nel proprio miglior consulente. Lo scopo è ridurre la fatica per ottenere la migliore collaborazione professionale con clienti e collaboratori.
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Vediamo come impostare una relazione professionale efficace, basata su una sincera relazione umana, che ci permetta di ottenere risultati e la migliore collaborazione. Questa è la puntata numero 20 del podcast Public Speaking Pratico, la quarta di una serie dedicata al sistema RORA, te lo spigo qui.
Due esempi di frasi che possono compromettere la relazione professionale.
ESEMPIO 1
"Prima di dirvi che cosa penso, vorrei sapere cosa ne pensate voi."
Perché è un errore: questa frase, pur animata da buone intenzioni, condiziona subito le persone. L’interlocutore percepirà che la parte più importante è il pensiero di chi pronuncia la frase, rendendo la sua opinione subordinata al timore o al desiderio di compiacerlo.
Il problema è il condizionamento: nel caso si stia discutendo di un qualche errore o problema, se condizioniamo il pensiero dei nostri collaboratori o clienti, anche involontariamente, rischiamo che la prossima volta il problema si ripeta o si ingigantisca, perché non avremo capito la vera dinamica in modo puro.
La nostra opinione teniamola per noi, sin dall'inizio: ovviamente formuliamo ipotesi sui fatti che accadono, è naturale. Ma il vero lavoro è trasformare gli altri in consulenti. Significa raccogliere le loro informazioni, metterle a confronto le une con le altre per avere la possibilità di formulare un parere personale puro.
ESEMPIO 2
"Non sto cercando un colpevole, voglio che capiamo insieme che cosa è successo."
Perché è un errore: la prima parte della frase, "Non sto cercando un colpevole," solleva il dubbio che chi parla, in realtà, lo stia cercando. È una frase inutile, fuori luogo, a meno che qualcuno non abbia già paventato la ricerca di un colpevole.
Il "voglio": il verbo servile in questo caso asservisce l'opinione delle persone al volere di chi sta parlando. Le persone possono desiderare di compiacere questa persona anche involontariamente. Ci troviamo di fronte ad un atto di potere esplicitamente espresso.
La parte più opportuna è "capiamo insieme": l'obiettivo dovrebbe essere semplicemente "Capiamo insieme che cosa è successo". Focalizzarsi su questo è prioritario.
Come impostare una comunicazione efficace e una relazione sincera:
Il metodo RORA ci guida in quattro passaggi fondamentali:
Le buone Ragioni / fatti: inizia sempre dallo stato dell'arte iniziale, dai fatti, dai dati incontrovertibili. Se una scadenza non è stata rispettata, parti da quello. Se i clienti si lamentano, parti da quella segnalazione. Se hai delle precisazioni, mettile qui, insieme ai fatti.
L'Obiettivo: comunica chiaramente dove volete arrivare, qual è lo scopo generale. L'obiettivo è più astratto delle singole azioni. Ad esempio, "dobbiamo capire cosa non ha funzionato nel nostro meccanismo".
La Relazione: è il cuore della comunicazione e di cui parliamo qui. In concreto si traduce in:
Trasforma l'interlocutore nel tuo miglior consulente: chiedi la loro reale opinione. Loro ti daranno informazioni vitali per esprimere il tuo parere, perché se avessi già tutte le risposte, sarebbe una presa in giro chiedere.
Relazione a pari livello umano: anche se i ruoli professionali vanno sempre tenuti ben presente (se tu sei il responsabile del progetto, per esempio, lo sei tu e non lo sono altre persone, che avranno altre responsabilità), la relazione umana ti mette allo stesso livello degli altri. Questo non significa essere amici, ma dare pari dignità alle persone sul piano umano.
Evita ogni condizionamento: non condizionare il pensiero dei tuoi collaboratori o clienti. È fondamentale per capire davvero cosa è successo. L'ho spiegato negli esempi qui sopra, lo spiego più approfonditamente nel podcast qua sopra che ti invito ad ascoltare.
Ascolto vero e non giudicante: ascolta con sincerità, senza "ma". Focalizza il tuo ascolto sull'interlocutore, spostando il focus da te stesso ai tuoi interlocutori: il risultato è una relazione gestita in modo più sciolto e semplice. In altri termini: meno stress.
Adotta la "postura dell'ignaro": agisci come se tu non fossi presente e volessi sapere cosa è successo. Chiedi semplicemente.
"Smontate il giocattolo": immagina l'accaduto come un meccanismo. Non demolirlo, ma smontane i pezzi, analizzateli insieme, guardate le combinazioni. Questo è giocare a carte scoperte.
Usa azioni di contatto: frasi come "se ho capito bene..." o "ho capito che..." servono a ristabilire il contatto e a verificare l'allineamento, mantenendovi sulla stessa pagina. Fai una sintesi per dimostrare di aver capito, ma evita di ripetere i dettagli non essenziali.
La relazione non è un contorno sentimentale: non si tratta di essere "carini" o “buone persone”. Si tratta di credere davvero nel bene dei tuoi collaboratori e clienti, perché questo porta beneficio a tutti.
La relazione riduce la fatica: quando gli altri diventano i tuoi consulenti, ti evitano di dover spiegare, giustificare o portare subito la soluzione. Fai domande e lascia che siano loro a darti le risposte.
L'Azione: è l'ultimo passaggio, quello che conclude e attualizza gli obiettivi. Non anticipare l'azione, perché la relazione ne risulterebbe subordinata e condizionata.
Cosa significa che clienti e collaboratori diventano i nostri migliori consulenti?
Quando parlo di trasformare collaboratori o clienti nei tuoi migliori consulenti, intendo un approccio preciso che ti permette di andare dritto al punto e ottenere risultati concreti. Il vero fulcro non è che loro siano formalmente consulenti, ma che tu li faccia diventare tali chiedendo la loro vera opinione.
Questo significa innanzitutto che la tua opinione, per quanto tu sia intelligente e abbia già delle ipotesi, la tieni inizialmente per te. Se avessi già tutte le risposte, chiedere la loro sarebbe una presa in giro, una mera formalità. Invece, l'obiettivo è raccogliere quante più informazioni possibili da loro. Ti do pari dignità, mettendoti sullo stesso livello umano, pur nel rispetto dei ruoli professionali.
Così facendo, saranno loro a fornirti informazioni vitali che ti serviranno a formare un tuo parere definitivo in quanto responsabile o consulente a tua volta. Potrai così confermare le tue ipotesi iniziali o, magari, accorgerti che ti mancavano alcuni dati e che la tua prima idea era sbagliata. Non condizionare il loro pensiero è cruciale, perché solo così capirai davvero cosa è successo, evitando che il problema si ripeta o ingigantisca.
La bellezza di questo approccio è che ti riduce la fatica. Non devi più spiegare, giustificare o portare immediatamente la soluzione. Invece, fai domande e lasci che siano loro a darti le risposte. I tuoi collaboratori e i tuoi clienti ti saranno riconoscenti, sentendo che hai davvero utilizzato, cavalcato e "cucinato" gli "ingredienti" che ti hanno offerto. È un ascolto vero e non giudicante, che ti permette di smontare il giocattolo – ovvero analizzare un meccanismo che non ha funzionato, come se lo stessi separando in pezzi per comprenderne le combinazioni – senza demolirlo, ma esaminandone i singoli componenti insieme a loro.
Ti suggerisco di fare esperimenti: distribuisci chiaramente i contenuti della tua comunicazione, parti dai fatti, stabilisci l'obiettivo, costruisci la relazione, e solo dopo ragionate insieme sulle azioni concrete da fare.
Buona pratica.
19. Per comunicare bene definiamo l'obiettivo della comunicazione.
Definire l'obiettivo della tua comunicazione ti permette di sconfiggere il "mostro mitologico" delle interazioni inefficaci, risparmiando tempo ed energie tue e degli altri. Lo scopo è trasformare ogni conversazione, riunione o presentazione in un'opportunità per raggiungere risultati concreti e verificabili.
Definire l'obiettivo della tua comunicazione ti permette di sconfiggere il "mostro mitologico" delle interazioni inefficaci, risparmiando tempo ed energie tue e degli altri. Lo scopo è trasformare ogni conversazione, riunione o presentazione in un'opportunità per raggiungere risultati concreti e verificabili.
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Spesso, le conversazioni, le presentazioni e soprattutto le riunioni si trasformano in un "mostro mitologico", con "tante teste e nessuna direzione". Questo mostro divora tempo ed energie senza portare a nulla di concreto, lasciandoti con una sensazione di frustrazione e la domanda: "Qual era il punto?". Questa sensazione nasce quasi sempre da una mancanza precisa: l'assenza di un obiettivo chiaro.
L'obiettivo è la destinazione segnata sulla mappa. Se la "buona ragione" (il punto di partenza incontrovertibile, lo stato iniziale dell'arte, come la frustrazione di un collaboratore o un problema esistente) è la bussola che ti dice da dove parti, l'obiettivo ti indica dove devi andare. Senza questa chiarezza, sei destinato a vagare nel vuoto e alla deriva.
> L’obiettivo è il secondo fattore del sistema RORA > te lo spigo qui
1. Definire un obiettivo.
Definire l’obiettivo non è un dettaglio, ma l'atto di responsabilità più importante per comunicare bene.
È il criterio che guida ogni scelta successiva nella tua comunicazione: la durata, il tono, le parole, i dettagli da includere o omettere. Se l'obiettivo è informare, la comunicazione sarà in un modo; se è convincere, in un altro; se è motivare, in un altro ancora. Senza un obiettivo, rischi di creare un "polpettone di informazioni", lasciando tutto informe.
È fondamentale distinguere l'obiettivo dall'ordine del giorno di una riunione. L'obiettivo è la direzione precisa, come "Siamo qui per decidere X" o "Usciremo da questa stanza con un piano per Y".
Considera l'esempio di Paolo, un consulente innamorato del suo prodotto. Quando presentò il software al direttore IT di una grande azienda manifatturiera, il suo obiettivo avrebbe dovuto essere allineato con quello del direttore: stabilità, sicurezza e integrazione felice con i sistemi esistenti. Invece, Paolo si lasciò prendere dall'entusiasmo e spiegò per dieci minuti una complessa funzionalità futura basata sull'intelligenza artificiale. Questo fu un errore: quell'informazione era irrilevante per l'obiettivo del suo interlocutore, che cercava una soluzione stabile per un problema attuale. Così facendo, Paolo non solo fece percepire il prodotto come più complesso (e meno stabile) di quanto fosse, ma comunicò anche di non aver ascoltato il bisogno reale del cliente. Il suo obiettivo, "mostrare quanto siamo bravi e innovativi", non era congruente con quello del direttore IT. È normale perdersi nei dettagli quando si è appassionati, ma questo può portare a sprecare energie preziose e a parlare per sé stessi, non per l'interlocutore. È essenziale valutare sia il tuo obiettivo che quello di chi ti ascolta.
Nel podcast qui sopra analizzo ancheil caso Giulia: preda del loop di un partecipante alla riunione di team.
Una trappola comune è confondere l'obiettivo con il voler avere ragione, specialmente nei disaccordi o conflitti. Quando la discussione si scalda, la pulsione immediata è dimostrare che la propria posizione è quella giusta. Ma così facendo, si perde di vista il vero obiettivo della situazione.
L'obiettivo si sposta sul vincere una "battaglia verbale", il che è sbagliato, perché i conflitti, se ben gestiti, dovrebbero essere generativi e creativi, non guerre. Per un manager o un professionista, l'obiettivo non può essere quello di avere ragione; è sempre migliorare la comunicazione per migliorare la collaborazione.
2. Come si definisce un obiettivo che sia una vera guida?
Con la semplicità. Prima di ogni comunicazione importante (telefonata, riunione, email, confronto), o anche durante, valuta l'obiettivo. Se hai tempo, scrivilo: "Qual è l'obiettivo di questa comunicazione? Dove punta il mirino?". Il consiglio è di esprimere l'obiettivo con un massimo di 10 parole. Se non riesci a essere così sintetico, probabilmente l'obiettivo non è ancora chiaro a te stesso. Se non è chiaro per te, come potrà esserlo per gli altri?. L'obiettivo deve essere "opportuno", deve condurti a un porto sicuro, e a volte per raggiungerlo, devi lasciare andare discussioni che rischiano di farti deviare.
2 esempi concreti di obiettivi "chirurgici":
per una riunione decisionale: "Uscire da qui con la decisione finale sul fornitore". Questo obiettivo non lascia spazio a dubbi e rende tutti responsabili.
per una chiamata di allineamento con un cliente: "Concordare i prossimi tre passi operativi del progetto". Non un generico "allineiamoci" (che è la buona ragione di partenza), ma un risultato tangibile e misurabile.
nel podcast qui sopra faccio altri esempi, ascoltalo!
In sintesi, definire l'obiettivo è l'atto di chiarezza che ti permette di smettere di creare "mostri mitologici" e di iniziare a costruire conversazioni davvero efficaci. Questo significa anche rispettare il tuo tempo e quello delle persone con cui lavori, un valore fondamentale nella comunicazione.
Buona pratica.
18. Perché hanno ragione anche quando hanno torto.
Come sbloccare le conversazioni difficili e gestire i conflitti nel tuo ambiente professionale per migliorare la comunicazione e ottenere una migliore collaborazione con clienti, colleghi e collaboratori.
Come sbloccare le conversazioni difficili e gestire i conflitti nel tuo ambiente professionale. Imparerai a distinguere l'avere ragione dall'avere una buona ragione. Vedremo in che cosa davvero le persone possono avere torto quando comunicano. Lo scopo: migliorare la comunicazione e ottenere una migliore collaborazione con clienti, colleghi e collaboratori.
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Abbiamo tutti in mente una conversazione che ci ha lasciato con l'amaro in bocca. Un collega, un cliente, un collaboratore che, dal nostro punto di vista, ha "torto marcio". La nostra reazione impulsiva è quella di affermare la nostra posizione, di dimostrare l'errore altrui. Ma questo, quasi sempre, porta a un'escalation di frustrazione che blocca ogni possibilità di collaborazione.
E se esistesse una leva più potente? Uno strumento controintuitivo per sbloccare queste situazioni, trasformando un potenziale scontro in un'opportunità? Questo strumento è contenuto in un paradosso: capire perché gli altri hanno ragione, anche quando palesemente hanno torto.
Analizziamo insieme questo meccanismo per renderlo un tuo strumento operativo.
1. Avere ragione vs. avere una buona ragione: la distinzione chiave.
Spesso confondiamo due concetti molto diversi: avere ragione e avere una buona ragione.
• Avere ragione implica un giudizio di valore: è giusto o sbagliato.
• Una buona ragione, invece, non è necessariamente giusta, ma è sufficiente a spiegare perché una persona fa o dice qualcosa.
Se ti pesto un piede e tu reagisci dandomi un pugno, la tua reazione non è giusta, ma il mio pestone è una buona ragione che la spiega. Allo stesso modo, la stanchezza, la frustrazione o una paura sono tutte buone ragioni che motivano i comportamenti. La buona ragione è un fatto, un dato di partenza. Negarla o giudicarla è inutile; osservarla e comprenderla è il primo passo per riprendere il controllo della comunicazione.
2. Dal giudizio all'indagine.
Marco, un project manager mio cliente, era costantemente frustrato da Luca, un designer di grande talento ma caotico, che lavorava sempre a ridosso delle scadenze. Dal punto di vista di Marco, Luca aveva torto perché non rispettava i tempi interni, creando problemi al flusso di lavoro.
• L'approccio basato sul "torto": In passato, Marco affrontava Luca frontalmente: "Sei di nuovo in ritardo, questo modo di lavorare è inaccettabile!". Il risultato era uno scontro il cui unico fine era stabilire chi avesse ragione, non migliorare la collaborazione.
• L'approccio basato sulla "buona ragione": Insieme, abbiamo cambiato leva. Invece di contestare il comportamento, Marco ha iniziato a indagare sulla buona ragione di Luca. Gli ha chiesto: "Ho notato che lavori molto negli ultimi giorni prima della scadenza. Forse questo metodo ti aiuta a essere più creativo, lavori meglio con l'adrenalina?".
Questa domanda ha cambiato tutto. Non era un giudizio, ma un tentativo di comprensione. Luca, sentendosi capito e non attaccato, ha ammesso che le scadenze intermedie lo bloccavano e che aveva bisogno del "caos" e dell'adrenalina per dare il meglio.
La conversazione si è spostata dal conflitto ("Chi ha torto?") alla risoluzione del problema ("Come facciamo a far convivere il mio bisogno di ordine con il tuo bisogno di flessibilità creativa?").
3. Disinnescare l'aggressività.
L'aggressività di un interlocutore è una delle sfide più difficili. Chiara, una consulente in change management, si è trovata in questa situazione. Durante la presentazione di un nuovo software, un capo reparto con 30 anni di anzianità l'ha interrotta a voce alta, accusando il progetto di essere "l'ennesima perdita di tempo".
• La reazione istintiva: Sarebbe stata quella di difendersi, di dimostrare che "questo progetto è diverso". Un errore che avrebbe solo alimentato lo scontro.
• La leva della "buona ragione": Chiara ha capito che quell'aggressività non era un attacco personale, ma un sintomo. Un sintomo di esperienze passate negative, della paura di un altro fallimento. L'uomo aveva torto nei modi, ma aveva le sue buone ragioni per sentirsi così.
La sua risposta ha disinnescato la bomba: "Mi sembra di capire che in passato qui in azienda ci siano state delle esperienze che hanno reso il lavoro più difficile invece di migliorarlo. È così?". Con questa mossa, Chiara ha legittimato l'emozione dell'uomo, gli ha dimostrato di averlo ascoltato e lo ha trasformato in un alleato.
Il mio consiglio: la prossima volta che ti trovi in un disaccordo, fermati un istante.
Invece di lottare per dimostrare di avere ragione, usa la curiosità. Puoi chiederti: "Qual è la buona ragione dietro le sue parole o le sue azioni?". Ecco una potente leva che sblocca i conflitti e riapre la porta alla collaborazione.
Buona pratica.
17. Smetti di pensare a cosa dire. Inizia a capire cosa serve all’interlocutore.
Per aiutare gli altri a comprendere davvero il nostro messaggio, ecco l’approccio RORA = ragione, obiettivo, relazione, azione.
Per aiutare gli altri a comprendere davvero il tuo messaggio, devi prima capire che cosa serve a loro, di che cosa hanno bisogno, cosa cercano e cosa osservano mentre comunichi. Ribaltiamo il classico pensiero: spostare il focus da "cosa dire" a "come posso aiutare chi ho di fronte a capire meglio?".
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Spesso, quando dobbiamo prendere parola – che sia per una presentazione, un'interazione, o per rispondere a obiezioni – la domanda che ci poniamo è: "E adesso cosa dico?". Questa domanda, pur non essendo sbagliata di per sé, può portare a confusione e generare un senso di prestazionalismo, dove l'obiettivo diventa solo quello di dimostrare la tua bravura o intelligenza. Nasce spesso da una sensazione di non essere all'altezza, una vera e propria trappola in cui tutti possiamo cadere.
Per affrontare questa paura e migliorare la tua comunicazione, ecco l'approccio RORA, una sequenza logica in quattro tappe che puoi utilizzare ogni volta che affronti una conversazione o una presentazione, liberandoti dal terrore di non trovare i concetti giusti. RORA sta per:
Ragione
Obiettivo
Relazione
Azione
Questo approccio pone la relazione umana al centro di tutto. Ti permette di cambiare il modo di prendere parola e ti aiuta anche a improvvisare quando non hai avuto modo di prepararti, una situazione sempre più frequente.
Vediamo nel dettaglio ciascun elemento:
Ragione
Questo è il punto di partenza cruciale. La ragione deve essere un dato incontrovertibile, un'osservazione della realtà generale o soggettiva che non può essere messa in discussione. Se tu dici "io sento freddo", nessuno può contestarti questa sensazione personale, a differenza di un'affermazione generica come "qui dentro c'è freddo".
Iniziare da una buona ragione, come le preoccupazioni o i dubbi del tuo interlocutore, apre l'ascolto e rende più facile la comprensione del tuo messaggio. Al contrario, portare subito la tua tesi o la tua richiesta (l'azione) è rischioso, perché può dividere l'uditorio e indurlo a chiudersi all'ascolto prima ancora di capire il perché della tua proposta. La buona ragione motiva la tua comunicazione.
Obiettivo
Dopo aver stabilito la ragione, devi chiarire l'obiettivo della tua comunicazione. Non si tratta solo di comunicare, ma di farlo per uno scopo specifico, che risponda alla ragione iniziale. L'obiettivo può essere tuo oppure delle persone in ascolto.
Relazione
Questo è il momento di riconnetterti con la persona o il gruppo. Si tratta di mostrare attenzione e sensibilità verso lo stato d'animo e le difficoltà degli altri. La comunicazione diventa a doppio senso, chiedendo conferma e coinvolgendo attivamente l'interlocutore, piuttosto che essere un monologo. È qui che si costruisce la sintonia.
Azione
Solo alla fine arriva la richiesta concreta o la proposta di azione. Formulando la tua richiesta in questo modo, essa risulta precisa, facilmente comprensibile e accolta con più facilità perché è preceduta da una buona ragione, un obiettivo chiaro e una relazione stabilita.
L’approccio RORA è un modo di ragionare e riflettere prima ancora di comunicare, un approccio mediato particolarmente utile nelle situazioni di improvvisazione, conflitto, o difficoltà. Ti aiuta a chiarire gli aspetti partendo dalle buone ragioni dei tuoi interlocutori, definendo un obiettivo comune, curando la relazione e infine arrivando ad azioni concrete e tangibili.
Ascolta il podcast qui sopra, dove trovi tre esempi di applicazione dell’approccio RORA.
Nelle prossime quattro puntate, continueremo questo percorso, esplorando nello specifico ciascuno di questi quattro passaggi del RORA, partendo dalla Ragione, il vero motore silenzioso di ogni comunicazione efficace.
16. 3 fattori per comunicare con sicurezza ed efficacia.
Comunicare con sicurezza ed efficacia si fonda su tre fattori: parole, espressività e, cruciale, l'intenzione. L'intenzione regola il lavoro sulle parole e sulla espressività.
Per comunicare con sicurezza ed efficacia, i tre fattori chiave sono parole, espressività e, soprattutto, una chiara intenzione. Quest'ultima è la tua bussola, essenziale per superare le insicurezze e ottenere l'effetto desiderato sull'interlocutore.
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Per comunicare con sicurezza ed efficacia 3 sono i fattori da considerare sempre. Sono strettamente intrecciati: le parole, l'espressività e, soprattutto, l'intenzione. Quest'ultima è la bussola della tua comunicazione, la vera chiave per superare le insicurezze e ottenere l'effetto desiderato sull'interlocutore.
Il vero nocciolo del problema: l'intenzione.
Troppo spesso, ricevo messaggi da persone che detestano la propria espressività, la voce che sentono "non bella", la gestualità che trovano rigida o monotona. Tutto questo porta a un profondo senso di insicurezza e inadeguatezza, la famosa sindrome dell'impostore, dove temi il giudizio degli altri non tanto su ciò che dici, ma sulla tua persona. Ti prendi cura di ciò di cui non dovresti curarti.
Queste insicurezze sono solo una proiezione delle tue paure sugli interlocutori. È come se un proiettore mentale disegnasse sul loro volto le tue stesse ansie. La soluzione? Spegnere quel proiettore e focalizzarti sull'intenzione.
L'intenzione: la tua bussola.
L'intenzione è la buona ragione per cui dici le cose che dici alle persone a cui le dici. È il perché profondo della tua comunicazione.
Puoi avere le parole più belle e l'espressività più coinvolgente, ma senza una chiara intenzione, tutto è vano. L'intenzione ti permette di declinare le parole in modo intelligente e sentirti automaticamente più sicuro, prendendoti cura di ciò che conta davvero.
Ti invito a farti tre domande sull'intenzione, fondamentali prima di ogni tua comunicazione:
Che cosa stai guardando?
Il mio suggerimento: non guardare il risultato finale – per esempio, la vendita – mentre stai parlando. Se sei un consulente finanziario che spiega il risparmio gestito, il tuo obiettivo in quel momento non è vendere, ma spiegare il risparmio gestito. Quando un venditore guarda solo la vendita, tu cliente diventi un mero oggetto di mercato, e questo si percepisce. La tua attenzione deve essere sul contenuto che stai portando, nel momento in cui lo stai portando.Come lo stai guardando?
Questo riguarda il tuo ruolo professionale. Sei un consulente finanziario che tenta di fare il docente? Se ti poni in un ruolo che non è il tuo, ti sentirai stressato e insicuro, perdendo efficacia. Devi chiederti chi sei, cosa fai e cosa puoi fare per le persone.Perché stai guardando ciò che stai guardando?
Qui entriamo nel profondo. Il perché è la ragione che ti spinge a comunicare. Vuoi differenziarti, esprimere la tua opinione, essere riconoscibile, lasciare un segno? Tutte queste motivazioni, che affondano spesso nella tua dimensione psichica, nella tua storia di vita, possono essere potenti, ma se non le riconosci, rischi di deviare, di andare fuori tema. Non puoi portare le tue dinamiche interne di crescita personale nel momento della comunicazione professionale, perché distrarrebbero il pubblico. La sede per questo è un'altra.
Le parole: il "che cosa".
Le parole sono il "che cosa" dici, i concetti che mandi, il messaggio chiave. Hai già i tuoi concetti, te ne occupi ogni giorno. Il vero lavoro è vederli, selezionare quelli davvero importanti in base alla tua intenzione e poi organizzarli, strutturando la tua presentazione o interazione in funzione dell'intenzione stessa.
I concetti sono i pilastri della tua idea centrale, la tua tesi.
L'espressività: il "come sto comunicando".
L'espressività è il "come" dici le cose. Da non confondersi con il come stai guardando ciò che stai dicendo in ragione dell'intenzione (vedi sopra).
Tanti si focalizzano sull’espressività. Con il rischio di sentirsi inadeguati soprattutto quando pensano a modelli che ammirano.
Quando l'espressività diventa la preoccupazione principale, il vero problema è la mancanza di chiarezza nell'intenzione. L'espressività non deve essere mai la prima cosa a cui pensi mentre comunichi.
Tuttavia, è fondamentale lavorarci prima o parallelamente alle tue interazioni. È importante:
conoscere le tecniche per rendere ogni presentazione più piacevole e coinvolgente, per volgere le persone verso la tua idea;
trovare la tua espressività unica e irripetibile. Esprimere significa premere fuori qualcosa da te stesso. Sii consapevole di come il tuo tono e il tuo corpo cambiano in base all'argomento o all'emozione. Questo è il tuo modo autentico.
ASCOLTA ANCHE > Comunicare e parlare in modo originale e autentico.
15. Come gestire i disaccordi: impariamo a smontare le conversazioni.
Per ridurre incomprensioni e conflitti serve definire bene i confini delle reciproche responsabilità: a ciascuno le sue. Ecco come farlo in modo leggero, semplice ed efficace.
Quando ci assumiamo responsabilità che non ci competono proviamo un senso di pesantezza mentale ed emotiva.
Imparare a smontare le conversazioni può darti più leggerezza e lucidità, potenziando la tua efficacia comunicativa e le relazioni professionali.
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Spesso, dopo una riunione tesa o una discussione con i colleghi, proviamo una pesantezza mentale ed emotiva. Una delle cause può essere un conflitto con gli interlocutori. Accade specialmente se un disaccordo è gestito male e ci porta a sentirci sovraccarichi, come se il peso dell'intera interazione fosse solo sulle nostre spalle.
Si rende necessario imparare a definire bene i confini delle nostre responsabilità e quelle degli altri. La nostra maggiore fonte di stress nasce quando ci assumiamo responsabilità che non ci competono e quando non permettiamo agli altri di prendersi le proprie.
Immagina un disaccordo come un giocattolo, un meccanismo che non funziona. La reazione istintiva è forzarlo o demolirlo, ma questo peggiora le cose e rischia di distruggere la relazione. Ti propongo l'approccio dell'artigiano curioso: smontare con cura il "giocattolo" della conversazione, pezzo per pezzo, per capire quale rotellina non gira. Questo è un processo di indagine, scientifico, per capire cosa stia accadendo nel conflitto, che è una semplice mancanza di congruenza tra le parti.
Vediamo come fare in quattro passi cruciali:
1. Smontare il disaccordo e osservare i dati: il primo errore è percepire un disaccordo come una contestazione personale. Se stiamo lavorando su un progetto, occupiamoci di quel tema specifico. Prendi l'esempio di un manager che chiede una "brochure semplice" e riceve un libretto di 12 pagine. Invece di proiettare frustrazione o rabbia, puoi lavorare sui dati oggettivi.
Il mio consiglio di evitare di interpretare ("forse era abituato a standard più alti"), e rimanere sui fatti: "Ti ho chiesto una brochure semplice... e ne ho ricevuta una di dodici pagine". Non stai accusando, ma osservando una differenza tra richiesta e risultato.
2. Esaminare la rotellina delle nostre emozioni: le nostre emozioni di disagio, irritazione o rabbia vanno riconosciute, non proiettate fuori o soffocate. Riappropriati del tuo sentire: invece di dire "Mi hai ignorato", puoi esprimere la tua sensazione: "Mi sento un po' confuso, non sto capendo cosa sia successo".
Le tue sensazioni sono verità inoppugnabili; nessuno può controbattere. Prendendoti la responsabilità della tua emotività, ma senza gettarla sull'altro, stai implicito dicendo: "Siccome sono confuso, adesso ho bisogno di fare chiarezza".
3. Assumere la postura dell'ignaro: questo è un potente cacciavite di precisione per disinnescare i disaccordi. "Ignaro" non significa stupido. Significa assumere una posizione mentale di chi non dà nulla per scontato. L'obiettivo è capire sinceramente le ragioni altrui.
Quando ricevi una domanda che sembra un giudizio ("Vedo che ha cambiato tre aziende... cerca stabilità, forse"), la reazione automatica è giustificarsi o irritarsi. Invece ciò che puoi fare è restituire la palla: "C'è qualcosa di specifico che vuole capire su questa motivazione?". Ora sta di nuovo all'interlocutore giocarsela. Non c'è aggressività, ma una legittima richiesta di capire lo scopo.
Costringi l'altra persona a prendersi la responsabilità della propria domanda.
4. Rimontare il giocattolo: il riepilogo per l'allineamento: questo passo è fondamentale e andrebbe fatto continuamente. Il riepilogo è lo strumento per capire… se ci stiamo capendo. Per capire se siamo allineati sui contenuti.
Puoi usare frasi come "Se ho capito bene" o "Voglio essere sicuro di aver capito". L'obiettivo non è dimostrare intelligenza, ma assicurarsi di essere allineati.
Se senti un disagio, hai il diritto e il dovere di fermare il gioco e dire: "Ho bisogno di chiarire una cosa per me". La responsabilità di chiedere maggiore chiarezza è nostra; poi passeremo la palla all'altra persona per verificare l'allineamento.
Quando ci prendiamo la responsabilità del nostro sentire e del nostro capire, smettiamo di farci carico delle intenzioni altrui, che non possiamo conoscere. In altri termini ognuno si prende la responsabilità delle proprie intenzioni, pensieri, parole e azioni. Questo metodo scientifico ti regala la possibilità di più leggerezza e lucidità.
Smontare il giocattolo permette di ottenere maggiore efficacia comunicativa e potenzia la relazione professionale.
La vera responsabilità non è portarsi il mondo intero sulle spalle, ma portare con leggerezza solo il proprio pezzo di responsabilità e lasciare agli altri lo spazio e la dignità di fare lo stesso, prendendosi le proprie.